L’isolamento del premier dagli alleati promette di essere un passo avanti

La novità è che Conte sembra rileggere l’esito delle Europee non solo come un trionfo leghista, ma come un presagio di isolamento di un’Italia identificata col «sovranismo» salviniano. Ieri il premier si è presentato come una sorta di doppio scudo, un po’ asimmetrico: per proteggere Luigi Di Maio dalla rabbia grillina dopo il sì alla Tav; e per offrire una fredda difesa d’ufficio a Salvini, impigliato nei rapporti melmosi tra lobbisti della Lega e faccendieri russi. Ma in parallelo ha rivendicato, all’unisono col capo dello Stato, Sergio Mattarella, una fedeltà europea e alla Nato come «perimetro naturale» della politica estera: un confine strategico che Salvini non può né deve superare con le sue esternazioni filorusse. I banchi vuoti del Movimento al Senato, e il rifiuto del capo leghista di presentarsi alle Camere, sono diventati le due facce dell’imbarazzo del governo gialloverde. E la solitudine di Conte ha finito per riproporre il suo ruolo di parafulmine delle difficoltà dei due vice: come nella trattativa acrobatica con la Commissione europea sui conti pubblici, sull’autonomia regionale, sulla Tav e sull’immigrazione; e probabilmente su ogni nuovo dossier spinoso. È facile per le opposizioni sostenere che si è già immersi in una crisi di governo. Ma fingono di ignorare che è una crisi ancora virtuale, come l’alternativa incarnata da un Pd lacerato e da Forza Italia che combatte per la sopravvivenza. La novità, semmai, è che Conte ha abbracciato l’ortodossia nelle alleanze internazionali non come interprete delle istanze populiste e sovraniste. Al contrario: ergendosi a suo garante «nonostante» ci sia chi nel governo azzarda variabili avventurose. Per il resto, il premier ha ribadito che la bussola in tema di autonomia regionale è l’unità nazionale; e che la Tav va fatta per evitare guai economici e politici peggiori. Sui rapporti tra Lega e Russia ha liquidato «il signor Savoini», referente del capo leghista, come un Carneade portato alle cene ufficiali da Salvini con un’imprudente leggerezza da correggere quanto prima. L’impostazione sembrava calibrata per puntellare il sostegno della sua maggioranza sbrindellata, e non per destabilizzarla; per disarmare le residue tentazioni leghiste di crisi; e per ritagliarsi il profilo di interlocutore rispettoso del Parlamento. L’idea che la rivolta del M5S sulla Tav sia uno strappo contro di lui, va ridimensionata. È, almeno in parte, una sceneggiata. Certamente esiste una componente del Movimento che non vuole staccarsi dall’estremismo dei no-Tav; e che usa il «sì» di Conte per attaccare Di Maio. Ma l’esigenza del vicepremier grillino è soprattutto quella di mascherare il proprio voltafaccia; e di affidare al Parlamento la decisione finale. Non a caso, seppure ambiguamente, Beppe Grillo lo «copre». Su queste contraddizioni Conte è destinato a galleggiare, sapendo bene che non affondare diventerà via via più complicato. Ma il messaggio a Salvini, che l’ha capito al volo, e infatti ha reagito con ira, non va sottovalutato. Se rompi, gli dice Conte, tornerò in Parlamento. Magari per cercare scialuppe di salvataggio al momento invisibili; e per tentare di arrivare non al 2020, ma molto più in là.

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