Un omaggio a una finta unità

 La direzione di oggi racconta che, in definitiva, il segretario esce, con un occhio agli equilibri interni, più rafforzato, perché di fatto può contare su una nuova maggioranza interna, sancita dal mite intervento di Lorenzo Guerini: “Colgo l’invito di Zingaretti alla responsabilità comune. Mettiamo da parte le discussioni sul passato, non possiamo continuare la discussione su quello che è stato. L’egemonia di Salvini ci impone la discussione sul futuro”. Ed effettivamente il prezzo dell’unità è questo “scurdammoce o passato” che riguarda le sconfitte e le responsabilità di questi anni, ma anche, evidentemente, il passato più recente, perché c’è un filo che unisce il “patto del Nazareno”, tra i più oscuri della storia repubblicana e la disinvoltura sul caso Etruria, la complicità ostentata con Verdini e gli incontri di Lotti con Palamara in una suite per decidere i capi delle procure che lo indagano.

 È il filo di una concezione del potere che non ha regole e limiti, vissuto con l’ebrezza dell’onnipotenza e con la pretesa dell’impunità. A volerla leggere, invece, con altri classici della giovinezza, si potrebbe ricordare quel che nel Pci si spiegava sin da quando si indossavano i calzoni corti. E cioè che l’unità, quella vera, è un fatto politico e culturale, altrimenti è una banale rimozione, buona per tirare a campare, ma insufficiente per chi vuole cambiare il mondo. In tal senso, la tanto decantata unità odierna assomiglia molto a una palude malmostosa, in cui il segretario ha rinunciato a cogliere l’occasione di uno scandalo etico per un deciso cambio di passo, una plastica discontinuità, un afflato “sentimentale” verso quel popolo che ha abbandonato la sinistra perché nauseato e arrabbiato proprio verso “quella” concezione del potere. E gli altri si sono rintanati chi alla ricerca di uno strapuntino di sopravvivenza, chi in attesa di un logoramento di Zingaretti alle prossime amministrative per poi rialzare la testa.

 Ecco, non c’è bisogno di scomodare Enrico Berlinguer, più volte citato e ricordato in questi giorni in cui si è celebrato il 35esimo anniversario della morte, per constatare che la rimozione riguarda proprio la “questione morale”. Che è poi – ricordate “onestà, onestà” – il fuoco su cui è divampata la rabbia contro partiti percepiti come mera conservazione dell’esistente, come establishment, chiuso e ovattato come una stanza d’albergo. Quei partiti che, 35 anni fa, Berlinguer fotografava come “macchine di potere e di clientela”, che “non fanno più politica” ma “gestiscono interessi, i più contraddittori, talvolta anche loschi, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani”, “federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto boss”, che “hanno occupato enti locali, gli enti di previdenza, le banche e le aziende pubbliche, gli ospedali, la Rai”. Si riferiva alla Dc e al Psi. Difficile, rileggendolo, non pensare a Etruria, al Csm, alle riunioni notturne di Lotti e Ferri con i membri del Csm e i capi-correnti togati per decidere il nuovo procuratore di Roma.

 Vista dall’esterno – sia detto senza demagogia – il ringraziamento a Lotti per la responsabilità dimostrata col passo indietro è semplicemente incomprensibile, come non regge l’ortodossia garantista, come se la questione fosse una vicenda penale e non di opportunità politica. Appunto, una questione morale. Ancor più incomprensibile per le modalità con cui il “passo indietro è avvenuto”, con una lettera intrisa di veleno, dal vago sapore minatorio. Parliamoci chiaro. Questa era l’Occasione per il neosegretario per “voltare pagina” (questo era lo slogan delle primarie), collocando il nuovo corso sul terreno di una salutare e catartica indignazione morale, sia pur con stile che lo contraddistingue perché tra il pretendere le scuse di fronte a comportamenti che offendono un patrimonio di valori e i ringraziamenti ci sono ragionevoli vie di mezzo. È chiaro che ha prevalso il rovello unitario e il timore che una spaccatura potesse essere  prodromica di una scissione. E ne avrà avute le sue buone ragioni, anche se il dubbio è legittimo perché si può rompere su tante cose, ma è assai complicato dire “io me ne vado” perché “è giusto brigare sulle nomine del Csm e sui vertici delle procure che mi indagano, ma il mio partito lo considera inopportuno”. Il Pd è un partito avvezzo ad assecondare il vento che tira, per opportunismo più che per convinzione, fatto di abili navigatori capaci di adattarsi ad ogni stagione, dal bersanismo al renzismo al post-renzismo, e ora nella pax zingarettiana, ma quello che sembra un successo tattico per il neo-segretario è un rischio potenziale, nella misura in cui l’unità si ritrova a discapito della chiarezza di fondo. Perché la scissione vera, mai ricomposta (si è visto a Cagliari), è con una parte di quel popolo perso in questi anni, disilluso nelle tante periferie geografiche ed esistenziali. Che se ne frega della melassa politicista, misura la novità in distanza da ciò che ha rifiutato, e chiede una novità. Radicale, vitale, sentimentale.

L’HUFFPOST

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