Fuocherello amico nel Pd

I numeri: in Emilia il Pd ha guadagnato cinque punti rispetto alle politiche dello scorso anno e, in termini assoluti, è l’unica regione d’Italia dopo ha guadagnato in termini rispetto alle politiche: più 35mila voti, anche se con una affluenza più bassa rispetto alle politiche. Sulla base del dato regionale alle europee il centrodestra è attorno al 44 per cento, con la Lega al 33; il centrosinistra al 39, col Pd al 31 per cento. È la dinamica del voto “amministrativo” però quella interessante. Perché sulla base di quel voto a livello regionale, ci sarebbe dovuta essere una debacle nei comuni in cui si è votato. Invece 174 su 235 comuni sono andati al centrosinistra che, al momento, governa in 7 delle dieci province emiliane: Bologna, Reggio, Modena, Ravenna, Cesena, Rimini e Parma con Pizzarotti. Mentre il centrodestra governa a Forlì, Ferrara e Piacenza.

È, dunque, una partita complicata ma aperta. In un partito “normale” il dibattito sarebbe sulle indicazioni politiche che arrivano dal voto. Ad esempio ha funzionato il “modello Modena” dove il sindaco uscente del Pd che, sulla base dei numeri del 2018 era destinato alla sconfitta, ha vinto al primo turno con una coalizione molto rinnovata e molto civica, capace di andare oltre i confini del voto di appartenenza e di intercettare il voto in uscita dai Cinque Stelle. A Ferrara, invece, dove la sinistra è andata divisa ed è stato impossibile costruire una coalizione, si è perso male dopo 70 anni.

È evidente che la discussione non è collocata a questa altezza. Parliamoci chiaro, quel che sta accadendo è molto chiaro: è ripartito il “fuocherello amico”. Mettete in fila gli elementi: Renzi che, subito dopo il voto alle Europee, parla di “pareggio” negando il passo in avanti rispetto al 17 alle politiche, poi, intervistato a Repubblica delle idee, a urne aperte cosparge rancore sui Cinque Stelle (il loro elettorato, alle amministrative ha iniziato a votare Pd), su Enrico Letta, sui sindacati, sulla sinistra. E ancora: nei giorni scorsi si è dimesso il suo segretario regionale in Basilicata, Mario Polese, altro suo fedelissimo in modo da togliere l’alibi sulla sua regione e preparare l’affondo sull’Emilia. Poi la Ascani che, in Umbria, ha riscoperto la rottamazione del “tutti a casa”, dopo che solo qualche mese fa aveva sostenuto il segretario del Pd Giampiero Bocci, finito ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sui concorsi truccati. Un fuocherello amico, tutto politicista, fatto di revanchismo mai sopito, tattiche di corto respiro, asfittica auto-referenzialità. Eppure di materia per una discussione alta ce ne sarebbe in una tornata amministrativa dove perdi a Piombino e vinci a Capua o Nola dove hai sempre perso e torni a conquistare Livorno dopo la catarsi grillina. Un tema è la difficoltà a tenere nel tuo blocco sociale tradizionale, quando la risposta è la stanca riproposizione della propria nomenklatura e di un modello che appare chiuso e impermeabile allo spirito del tempo.

E invece sta accadendo altro. E cioè che la ridotta del renzismo (a ben vedere sempre meno numerosa) punta al default autunnale del Pd in Umbria ed Emilia per chiedere un “congresso straordinario”, adesso che il ritorno al voto non è più un’ipotesi all’ordine del giorno. In autunno o quando sarà. Perché è possibile che in Emilia si possa votare anche a gennaio. Secondo la legge, infatti, ci sono due mesi di tempo per tornare al voto dalla scadenza naturale della legislatura regionale, che cade a fine novembre. Il che consentirebbe di approvare il bilancio regionale senza andare in esercizio provvisorio, come invece accadrebbe secondo i desideri della Lega che chiede il voto già in autunno. Il che non è un dettaglio perché questa ipotesi comporterebbe lo slittamento dei fondi da destinare ai comuni, che verrebbero destinati nella sessione estiva di bilancio. Sia come sia, da oggi l’Emilia è l’ultima frontiera del rancore reducista di un pezzo del Pd, che coltiva l’illusione del ritorno sulle ceneri della sinistra, adesso che l’orizzonte del “partito di Renzi” è tramontato nelle urne, perché non c’è più lo spazio politico di una scissione e e sarebbe incomprensibile rompere un partito comunque arrivato secondo. Siamo al “muoia Sansone”, sublimazione parossistica di un leader che ha il rancore come strategia, come accadde con la pubblicazione del suo libro a primarie in corso, nel tentativo di farle fallire le primarie. La notizia però è che i filistei hanno imparato a sopravvivere, anche piuttosto bene.

L’HUFFPOST

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