La tutela politica che torna

Non è una commissione di inchiesta conoscitiva, ma può disporre dei poteri dell’autorità giudiziaria, ordinare l’accompagnamento coattivo di persone, superare le norme sui diversi segreti, sanzionare in caso di rifiuto di comparizione e di false dichiarazioni. Si può essere sicuri che la commissione sarà al centro di una guerriglia contro banche e istituzioni finanziarie, perché forze populiste, cultrici di un circuito stretto popolo-Parlamento, che evocano ogni giorno poteri occulti e «poteri forti», cercheranno in questo modo di tenere sotto scacco le forze politiche che in passato hanno avuto compiti di governo.

Questa ulteriore rottura del nostro sistema di equilibri costituzionali è sproporzionata, ridà spazio alla politica nel campo del credito e lo danneggia, ed è di assai dubbia costituzionalità. È sproporzionata perché, invece di concentrarsi sulle 12 banche dove si sono verificati gli inconvenienti lamentati, si dirige contro tutti i 505 istituti (parte di 115 gruppi) del nostro Paese. Circa 25mila risparmiatori lamentano di esser stati danneggiati dal collocamento di titoli rischiosi, ma il rischio è mettere sotto indagine i circa 280mila addetti al settore creditizio (per non parlare di quelli dei settori assicurativo e previdenziale). Finisce per fare di tutta l’erba un fascio, con il pericolo di non riuscire a colpire i veri colpevoli. In secondo luogo, la legge istitutiva della commissione di inchiesta fa fare all’Italia un salto indietro: dopo tanti sforzi fatti per togliere le banche e le istituzioni finanziarie dal circuito della politica, le rimette sotto tutela; dopo tanti tentativi di assicurare un controllo indipendente sull’economia, la si pone nuovamente sotto i condizionamenti della politica. In terzo luogo, la commissione di inchiesta rappresenta un atto di sfiducia del Parlamento italiano nei confronti del sistema finanziario e delle autorità pubbliche che lo controllano. Le banche, più che denaro, comprano e vendono fiducia. Prestano denaro facendo affidamento sul prenditore di credito. Prendono denaro dai depositanti, che fanno affidamento sulle banche. Se lo Stato italiano, al suo più alto livello, fa una dichiarazione di sfiducia nelle banche e nei loro controllori, delegittimandoli, quale affidamento potranno riporre domani i cittadini italiani nelle loro banche (anche se i comportamenti di alcune di esse hanno contributo a minare quella fiducia)?

Ma c’è un danno ancora maggiore che la commissione d’inchiesta farà al sistema finanziario. Questo non ha completato un difficile processo di riconversione. Aveva redditività insufficiente, eccesso di capacità produttiva, carico elevato di attività rischiose, istituti di dimensioni troppo limitate. Ha avviato i necessari cambiamenti. Intanto, altre modificazioni divengono necessarie, imposte dal fatto che il futuro del denaro è digitale e che le banche sono state colpite dalla crisi (perché imprese e famiglie non sono riuscite a rimborsare i prestiti ricevuti), e si stanno solo ora riprendendo. Un colpo come quello inferto dal Parlamento corre il rischio di rallentare o fermare il processo di riorganizzazione e la lenta risalita del nostro sistema bancario. Poi, questa legge è di dubbia costituzionalità. La nostra Costituzione, all’articolo 47, dispone che «la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme», non che lo mette sotto accusa. L’Unione europea ha disposto l’indipendenza delle Banche centrali, che sono divenute organi di un sistema euro-nazionale, su cui gli Stati hanno limitati poteri di intervento. Le agenzie di rating operano all’estero: provvedimenti legislativi che riguardano soggetti stranieri sono legittimi costituzionalmente e possono trovare concreta attuazione? E che dire delle partecipazioni azionarie di stranieri nel capitale delle imprese finanziarie italiane? I reati bancari e finanziari possono esser accomunati a quelli di mafia e di terrorismo? L’articolo 82 della Costituzione dispone che le commissioni parlamentari di inchiesta procedono alle indagini e agli esami «con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria», non con le stesse funzioni di quest’ultima, altrimenti ritorniamo alla concentrazione dei poteri, con buona pace di Montesquieu che li voleva separati. Il Parlamento può, in sede di «indagine ed esame», invadere l’autonomia di imprese bancarie, che sono private, non di servizio pubblico, e limitare l’azione di autorità indipendenti, mettendo sotto controllo i controllori, ricostituendo un’osmosi tra politica e amministrazione e mostrando tanto spirito di parte e mancanza di terzietà?

Infine, dietro a questa legge c’è un intento dichiarato il 29 marzo scorso da uno dei due padroni del governo, che vuole «mettere la giustizia sociale al centro delle dinamiche bancarie». Questa nuova regola di gestione dell’impresa creditizia cozza contro quell’articolo del codice civile secondo il quale l’imprenditore esercita un’attività al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi, o – come si dice correntemente – per produrre profitti che ne garantiscano la sostenibilità. Mentre l’esecutivo si propone di mandare a casa anche il codice civile, colpiscono il silenzio dolorante del sistema bancario e finanziario italiano e l’inconsapevolezza suicida del governo. Il primo sembra aver chinato la testa, forse nell’attesa di tempi migliori, che potrebbero – però – non venire, visto che siamo già alla seconda commissione di inchiesta (anche se quella precedente aveva un oggetto ben più limitato). Il secondo non si è forse chiesto che succederebbe se le banche, nella loro autonomia, smettessero di comprare titoli di Stato, dimenticando che anche grazie alle banche italiane il debito pubblico è sostenibile.

CORRIERE.IT

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