Bocciate tutte le alternative alla Brexit, il no deal è ormai a un passo
Un sì che i deputati di Westminster non sono stati tuttavia in grado di esprimere sulle loro quattro opzioni superstiti di piano B, dopo il nulla di fatto della settimana passata, in un intrico di ostruzionismi e veti incrociati. Le mozioni in pole position favorevoli a una Brexit più soft – sostenute dall’intera opposizione laburista e da una fetta significativa di Tory moderati – sono rimaste sotto le aspettative: la prima, che mirava a lasciare Londra nell’unione doganale a costo di rinunciare a futuribili accordi di libero scambio autonomi con Paesi terzi come quello che l’amministrazione Usa di Donald Trump continua almeno a parole a offrire, si è fermata a soli 3 voti della maggioranza (273 contro 276), ma comunque sotto. La seconda, che raccomandava l’uscita dall’Ue, ma non dal mercato unico, ha fatto peggio (meno 21) tanto da indurre il suo promotore, il deputato conservatore dissidente Nick Boles, ad annunciare l’addio al partito della May.
Niente da fare nemmeno per le altre due proposte, che puntavano a un vero e proprio rovesciamento del risultato referendario del 2016: la prima (appoggiata pure dal leader del Labour, Jeremy Corbyn, ma non da alcune decine di deputati laburisti eletti in collegi pro Brexit), in favore di un secondo referendum, ha avuto un buon numero di sì (280), ma anche di no (292), con uno scarto negativo di 12 seggi; mentre l’ultima, che reclamava al Parlamento addirittura la potestà di revocare con un singolo voto di maggioranza l’artico 50 e di congelare la Brexit sine die come alternativa al «no deal», è stata battuta nettamente con 101 voti di gap.
L’epilogo «hard»
Ora è proprio il «no deal» – epilogo di default nel caso in cui una qualunque intesa non ricevesse l’approvazione formale, come ha ricordato all’aula dopo il flop il ministro per la Brexit, Stephen Barclay – il traguardo più probabile. Un traguardo auspicato a gran voce dai brexiteer, divenuti di fatto maggioranza nel gruppo Tory come testimoniato dalla lettera firmata da oltre 170 deputati in cui si chiede a Theresa May che la Gran Bretagna esca a questo punto dall’Ue il 12 aprile «con o senza accordo». E che la premier non sembra escludere più del tutto, ma spera ancora di aggirare aggrappandosi alla speranza di strappare mercoledì prossimo un quarto voto sul proprio accordo. Magari in ballottaggio con il piano B sull’unione doganale, stando alla controproposta di Corbyn. E in ogni caso con in mano la spada della minaccia delle temute elezioni anticipate.
DOMANDA E RISPOSTA Chi ha inventato la Brexit?
Guerra tra i Tories
Il governo, del resto, appare troppo diviso anche per ordire una congiura immediata contro la premier. Come dimostra la guerra aperta fra alcuni ministri e notabili, dal titolare della Giustizia, David Gauke, al chief whip Julian Smith, orientati oramai pubblicamente ad accettare una Brexit morbida se non altro per ragioni di «aritmetica parlamentare»; e altri colleghi (a partire dal vecchio euroscettico Liam Fox) pronti a gridare al «tradimento» e a ipotizzare dimissioni di massa.
Mentre alla City e nel mondo economico l’allarme si tinge di panico, ma anche di collera. Con la compagnia aerea EasyJet che crolla in borsa per le incertezze dei prossimi mesi; le scorte degli importatori che si moltiplicano; e Juergen Maier, ceo di Siemens Uk, che sollecita un soprassalto di realismo a un Paese – sferza – divenuto «lo zimbello» d’Europa.
SCHEDA E adesso che succede? Tutti gli scenari, dal no deal al rinvio
LA STAMPA
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