Il Pd del mite Zinga

Diciamolo subito. È l’inizio, solo l’inizio, di un possibile “nuovo Pd” – questo il proposito, l’ambizione, il progetto – perché poi le migliori idee camminano sulle gambe degli uomini. E le gambe sono di chi, finora, non è propriamente stato su Marte, ma tanta responsabilità ha avuto in questi anni, dal neo eletto presidente Paolo Gentiloni discendendo giù pe li rami. Non è un dettaglio, a scorrere i nomi della direzione, perfetto accrocco di correnti, come sempre è stato, su cui si è svolta una trattativa serrata fino all’ultimo su nomi e quote, equilibri all’interno delle singole componenti, con poche novità presenti proprio nella quota nel nuovo segretario con la presenza, oltre a Carlo Calenda, soprattutto di parecchi giovani.

Però questo nuovo inizio, a giudicare dalla fotografia di giornata, segna una cesura politica, sia pur nello iato tra ciò che è ancora il corpo del Pd e ciò che dovrebbe diventare. Bastava raccogliere all’uscita dall’Ergife lo sfogo di qualche irriducibile del renzismo su un discorso “da Ds” o l’entusiasmo degli altri perché “finalmente è tornata la sinistra”, ecco bastava ascoltare qualche reazione, per dare il senso di ciò che è accaduto. Ovvero: un cambio di “paradigma”, politico e culturale. C’era una sala di dirigenti politici, non di tifosi, attenta e ragionante, interprete di quell’ansia di rinnovamento e di alternativa, espressa dal popolo delle primarie che non vive la partecipazione come applauso al Capo e delega fideistica. E un segretario che si è posto come interprete di una comunità e non come un novello Prometeo che porta il fuoco agli uomini: gli attacchi al governo non sono insulti, l’atteggiamento è di chi ha imparato la lezione, l’analisi della società, delle sue sfumature e delle sue contraddizioni, non cede mai il posto al battutismo.

Nel discorso c’è tutto lo sforzo di riaffermare il primato dalla politica sulla comunicazione, dell’iniziativa sulla testimonianza, secondo l’antica lezione che la grande politica non può prescindere dalla fatica intellettuale di comprendere il tempo che ci è dato di vivere. Ed è tornato, per prima volta nelle parole di Zingaretti, un principio di critica severa al capitalismo, alle storture del mercato, alla sbornia liberista di questi anni di crisi “in cui abbiamo governato, e non poco, anche noi”, e a una visione ciecamente ottimistica della globalizzazione che ha portato a sottovalutare il tema delle disuguaglianze: “Non abbiamo compreso quanto negli ultimi vent’anni un becero liberismo, ringalluzzito dalla fine così poco dignitosa del socialismo reale, avesse ripreso le redini del comando”.

Parole che non si sentivano da un po’, come la ricerca di un dialogo con quelle periferie sociali che hanno abbandonato la sinistra e hanno creduto nei Cinque Stelle. Quel popolo, non i leader che restano avversari, è forse il primo destinatario del discorso. Sentite qui: “Una parte grande di quelli che hanno creduto in Di Maio gli si stanno rivoltando contro perché non è rappresentata quella speranza di cambiamento che il movimento aveva intercettato e rappresentato. Non è affatto scontato che tornino a noi. Ma questo è il passaggio essenziale che si sta verificando nel quadro politico”.

Lo schema è cambiato. Dal conflitto, inteso come ossessiva ricerca del nemico, interno ed esterno, “noi e i barbari”, al tentativo di ricollocare il Pd nel cuore della società italiana ridisegnando la sua funzione nazionale attraverso la critica dell’esistente e la cultura del “patto”. Patto col lavoro, con l’impresa, con l’intellettualità “prendendo noi l’iniziativa di incontrarli”, con quei corpi intermedi, ignorati e vissuti come ostacolo negli anni della disintermediazione e del populismo, per costruire una nuova agenda. Welfare, assunzioni nella scuola, sanità, questione salariale degli insegnanti, tanto sud, mezzo intervento è su un rinnovato ruolo del pubblico e su una attenzione al sociale. È questa attenzione a una ricomposizione del corpo sociale della sinistra la maggiore novità del discorso. E la grande sterzata, appunto, rispetto alla disintermediazione. Popolo inteso non come generica entità sociologica, ma come costruzione politica, con i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue contraddizioni. Il che significa ri-politicizzare lo spazio politico, attorno alla distinzione tra destra e sinistra, proprio in un’epoca in cui la narrazione dominante lo ha incentrato attorno alla contrapposizione tra èlite e popolo, inteso come entità indistinta.

Questa è la novità che colloca la discussione sulle alleanze del “nuovo centrosinistra” fuori dal politicismo delle sigle, perché dà ad essa uno sfondo sociale. La proposta di Zingaretti, concreta, è sostanzialmente, di un coordinamento tra le forze di opposizione al governo, come terreno su cui costruire una alternativa. Parliamoci chiaro: è rivolta alla Bonino, a Pizzarotti, ma anche a Leu che resta innominata perché il neosegretario vuole gestire il passaggio con gradualità. Però ciò che è a sinistra del Pd torna ad essere un interlocutore, non più il diavolo, a partire dalla lista per le europee perché non ha senso che chi si riconosce in Europa nel Pse in Italia si presenti diviso “in due liste”. E anche questa è una novità: “Non si tratta di mettere indietro le lancette dell’orologio, a cominciare da chi a mio giudizio ha sbagliato a dividersi da noi. Si tratta di non rimanere immobili e di avviare una rigenerazione di un campo plurale nel quale ognuno deve fare la sua parte”. Renzi è assente. Lontano dalla sala, e non solo fisicamente.

L’HUFFPOST

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