L’imbuto che fermerà i grillini

In ultimo, per evitare lo sfratto, Conte si è trasformato da «avvocato del Popolo» nel più prosaico «Azzeccagarbugli», nell’intento di prendere tempo, rinviando il Sì o il No: in realtà, non ha fatto granché visto che la Telt, la società che gestisce la costruzione della Tav, ha un consiglio di amministrazione franco-italiano, ma segue il diritto transalpino e lì appunto non ci sono i «bandi» per dare il via ai lavori, ma lo strumento degli avis de marchés (manifestazioni d’interesse delle imprese) che non prevedono penalizzazioni, in caso di revoca entro sei mesi. In poche parole si tratta, per usare la celeberrima battuta di Ugo Tognazzi, di una supercazzola giuridica per dare modo a Di Maio di arrivare alle elezioni europee e piemontesi, giurando che la Tav non si farà, e, naturalmente, a Salvini di dire l’esatto contrario. Un espediente di cui aveva parlato per primo, giovedì scorso, il vicepresidente grillino della Commissione attività produttive, Luca Carabetta (il suo motto è «nato democristiano»), ma con una postilla: «Per dare l’idea che la Tav non si farà davvero, dovremmo però contemporaneamente stanziare dei fondi per l’ammodernamento del Frejus». «Più che Tognazzi ridacchia l’azzurro Pierantonio Zanettin siamo agli espedienti di Totò, Peppino e la malafemmina».

Appunto, espedienti che servono, però, solo a ritardare e non ad evitare che la Tav si faccia. La parte saliente della lettera che il Cda ha inviato all’Azzeccagarbugli di Palazzo Chigi è quella, infatti, che ricorda in un passaggio come «in assenza di atti giuridicamente rilevanti che comportino istruzioni di segno contrario» la procedura va avanti: un modo per rimarcare, anche in questo frangente, che per bloccare la Tav c’è bisogno di un atto del governo, che poi dovrà essere ratificato dal Parlamento. Un atto che i ministri leghisti non voteranno mai e che, comunque, non avrebbe nessuna chance di esser ratificato in due Camere dove gli unici anti-Tav sono i 5 stelle. Per cui l’opposizione grillina al tunnel è solo una grande sceneggiata in difesa di un totem del loro credo: debbono convincere il loro elettorato che stanno facendo di tutto, ma proprio di tutto, per resistere. Anche perché un cedimento ufficiale provocherebbe a Torino quello che è successo a Taranto per l’Ilva: tre quarti dei consiglieri comunali grillini lo hanno già comunicato a Di Maio – abbandonerebbero il sindaco Appendino. Da qui la sfilata degli interventi rituali di questi giorni di Di Maio, Grillo e Fico, con Davide Casaleggio, vero custode dell’attuale equilibrio politico, nel ruolo di pompiere. L’unico modo per bloccare la Tav davvero, sarebbe stata la strada della crisi e delle urne anticipate. «Ma quelli che stanno al governo mi dicono ha spiegato nei giorni scorsi Grillo che se si rompe con la Lega e andiamo ad elezioni anticipate, rischiamo di stare sotto il 15%».

Di questo handicap nella strategia grillina, Salvini è consapevole. Tant’è che in questo weekend è partito per Milano, infischiandosene dell’atmosfera di pre-crisi che aleggiava sul governo, e lasciando la patata bollente nelle mani di Conte e Di Maio. Il leader leghista, infatti, è persuaso che i 5 stelle non compiranno mai l’ultimo passo, non arriveranno mai alla crisi, che le loro minacce sono senza seguito. Si sente forte e osa. Qualche settimana fa, prima di decidere il sofferto no al processo contro Salvini per il presunto sequestro degli immigrati della motonave Diciotti, Di Maio aveva fatto questa analisi degli ostacoli del governo nell’ottica grillina all’interlocutore leghista: «Noi aveva spiegato non vogliamo assolutamente le elezioni. Né la crisi di governo. Posso convincere i miei a dire di no all’autorizzazione. Sull’autonomia si può ragionare, rinviandola di qualche mese per confrontarci su alcune modifiche. Sulla Tav, però, te lo dico fin d’ora, noi non possiamo tornare indietro. La nostra base ci sbranerebbe». Salvini ha ascoltato e rassicurato. Tant’è che nei giorni seguenti il capogruppo dei senatori 5 stelle, Patuanelli, tesseva le lodi del «Matteo uomo di parola».

Solo che anche per il leader leghista, in questa fase di recessione economica, è diventata un’impresa tenere a bada gli elettori del Nord. E sarà sempre peggio. «Sono l’unico tra i miei ha spiegato più volte a Di Maio a credere ancora in questo governo». Un No alla Tav rischiava di far saltare il tavolo. L’unica concessione che poteva fare il leader leghista era un rinvio. Camuffato. È quello su cui ha lavorato l’azzeccagarbugli Conte: per cui, ancora sei mesi, poi, per bloccare la Tav non basteranno neppure le elezioni. Anche perché a quel punto dopo una prevedibile batosta elettorale in Basilicata, un’altra probabile alle Europee e, in contemporanea, in Piemonte, Di Maio e compagni avranno ancora meno voglia di votare. E in quelle condizioni evitare che si oppongano alla Tav, che accettino di andare incontro ad una gloriosa sconfitta, sarà facile come rubare le caramelle ai bambini. A meno che Salvini non cambi piani di guerra prima: affrontare la grave situazione economica di un Paese in recessione, mettere in piedi in autunno una legge di bilancio che partirà con un handicap di 23 miliardi di euro, con l’allegra compagnia teatrante gialloverde (la sceneggiata Tav docet), è una scelta da kamikaze.

IL GIORNALE

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