La tracotanza moralistica sta stancando gli italiani

Qualcuno, nei mesi scorsi, vedendoci dentro vicende di violenza, spesso estreme e talvolta razziste, ha ironizzato sul tramonto degli italiani «brava gente»; e ha fatto dell’«ostentazione dell’inumano» la cifra di posizioni giornalistiche e di ambizioni di leadership politica. Siamo ancora e sempre impastati di terra, figli di Adamo; e non riusciamo ad essere cristiani, umane creature di Dio.

Per capire questa regressione dobbiamo rilevare che prima di essere disumani siamo passati per uno stadio intermedio, siamo cioè stati a lungo «incivili». Per decenni infatti, mentre la classe dirigente ci chiamava a virtù civili e al bene comune (con enfasi sull’unificazione nazionale, sul patriottismo, sulle avventure belliche e imperiali, ma anche sul valore primario delle istituzioni e delle relative regole di convivenza), la maggioranza silenziosa e scettica del Paese non faceva proprio il civismo istituzionale e si considerava serenamente «incivile» (a livelli alti nell’evasione fiscale o nel poco rispetto per le regole istituzionali; più in basso, nel non rispettare i limiti di velocità sulle strade e nel gettare rifiuti ovunque).

Ma quando un popolo si considera incivile è possibile scivolare verso giudizi morali. La dinamica sociale e la dialettica sociopolitica non sono più ispirate e condizionate dal rapporto fra civismo istituzionale e libertà comportamentale dei singoli; sono piuttosto alimentate da un moralismo di massa spesso esasperato e strumentalizzato. Così ogni comportamento istituzionalmente scorretto non è più incivile, ma immorale; contrario a un sempre sfuggente bene comune; e su cui è moralmente lecito aumentare la repressione: in ogni incidente automobilistico c’è all’angolo un omicida stradale; in ogni dichiarazione dei redditi c’è all’angolo uno spregiudicato evasore; in ogni contratto pubblico c’è all’angolo un intreccio di sordidi corrotti.

Non ci sono più comportamenti cui decifrare lo scostamento dalla correttezza istituzionale; ma comportamenti su cui il giudizio morale stabilisce (con forza anche mediatica) che i loro titolari sono fuori dal bene comune; e possono quindi essere perseguiti come «stranieri»: nel sistema allora non esiste un innocente, ma solo uno che l’ha fatta franca; non esiste un normale indagato da portare a processo, ma un potenziale delinquente da far «marcire in galera»; non esistono immigrati da integrare, ma potenziali terroristi da cui difendersi chiudendo i porti e lasciando che affoghino nel «nostro mare».

Certo non è bello sentirsi un po’ o tanto disumani, ma va tenuto conto del fatto che da un decennio a questa parte la mancanza di traguardi individuali e collettivi di sviluppo (per colpa della gravissima crisi dell’arresto dell’ascensore sociale) ha messo in moto un’onda lunga di incertezza, di insoddisfazione, di rancore, che poi ha tracimato in diffusa cattiveria, anche personale. Prenderne atto è operazione di debita autocoscienza, ma di quell’onda si può cogliere anche un possibile ritrarsi: comincia ad affermarsi, infatti, un po’ di stanchezza per la tracotanza moralistica di chi cavalca l’inumano. Il moralismo va bene e fa bene, ma la tracotanza non è per gli italiani che vogliono sentirsi solo umani.

CORRIERE.IT

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