Maduro marcia con i militari ma l’opposizione riempie le piazze

Già in passato Maduro aveva usato l’esca del dialogo e delle mediazioni internazionali, per guadagnare tempo e fiaccare l’opposizione. Quanto al voto, il problema sono le presidenziali fraudolente che lui ha vinto nel maggio scorso, senza la partecipazione dei suoi avversari. Le consultazioni per l’Assemblea nazionale invece si erano svolte nel 2015, e l’opposizione le aveva vinte, nonostante le urne fossero controllate dal regime. Tenerle di nuovo servirebbe solo a truccarle, per togliere a Guaidó la presidenza del Parlamento, che il leader chavista aveva già cercato di esautorare nel 2017 convocando le elezioni per l’Assemblea costituente. Intanto però comincia la giornata della protesta con una dimostrazione di forza, per avvertire che i militari sono con lui, e restano pronti a reprimere gli oppositori.

Guaidó si unisce alla manifestazione nella Universidad Central de Venezuela, a cui lo lega un ricordo personale: «Questo ospedale salvò la vita a mio padre, Wilmer. Ora forse non potreste farlo, non per colpa vostra, ma perché nel Venezuela c’è una emergenza umanitaria». Il presidente ad interim indossa il camice bianco offerto dagli studenti, che sopra hanno scritto col pennarello messaggi di sostegno, e marcia con loro: «Pensavano che oggi il popolo venezuelano avrebbe avuto paura, e invece siamo nelle strade, e ci torneremo sabato. Siamo in oltre cinquemila punti nelle piazze, per la speranza di vivere in un Paese migliore. Noi non intendiamo andarcene. Chiediamo invece che la nostra gente ritorni». In effetti molti lo seguono, oltre ai quartieri alti di Caracas che sono sempre stati con l’opposizione. Proteste si segnalano anche a San Antonio de los Altos, El Hatillo, lungo la Panamericana nella zona di La Matica e altrove.

Poco prima Guaidó ha ricevuto una telefonata di Trump, che gli ha ribadito il suo sostegno, manifestato con il riconoscimento, ma anche con le sanzioni contro l’industria petrolifera venezuelana, che minacciano di mettere in ginocchio il regime. L’unico Paese europeo importante che non ha ancora dato un segnale chiaro è l’Italia, e Aurora Benavente non riesce a farsene una ragione: «Ma come? Siete venuti a migliaia dall’Italia, quando dopo la Seconda guerra mondiale non ve la passavate bene. Vi abbiamo accolti a braccia aperte, e con il vostro duro lavoro ci avete aiutato a costruire il nostro Paese. E adesso che abbiamo bisogno di aiuto, proprio voi ci voltate le spalle?». L’amica che è venuta con lei, Elisa San Clemente, spiega perché dovremmo ascoltarle: «Qui si muore di fame, non è una questione politica». Ma non teme un bagno di sangue? «Ho paura di schiattare sotto la dittatura. Morire per morire, tanto vale farlo per riconquistare la libertà».

Davanti a loro passa un signore che indossa la maglia azzurra della Nazionale italiana di calcio. Lo fermo, e mi spiega: «Mi chiamo Domenico Gagliardi, sono nato vicino Cosenza. Mio padre era emigrato qui nel 1958, e io l’ho seguito quando avevo compiuto 16 anni. Abbiamo lavorato duro e costruito due alberghi, nella zona di Miraflores, vicino al Palazzo presidenziale. Ora però sta finendo tutto. I miei figli sono scappati, uno in America e l’altro in Inghilterra». Lui ha una sua teoria, sulla posizione ambigua dell’Italia: «Abbiamo un sacco di interessi qui, vogliamo andarci cauti. Però il cambiamento ormai è in marcia. Speriamo che i militari lo capiscano e mollino il regime. Però Maduro, con le buone o le cattive, finirà. E allora non sono sicuro che le porte si riapriranno, per chi ci ha abbandonati».

LA STAMPA

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