Pensioni, Ue contro la riforma. Penalizzazioni al 12 per cento

alessandro barbera, fabio martini
roma

In pensione prima sì, ma spendendo molto meno. Da cinque giorni Matteo Salvini e Luigi Di Maio stanno ragionando, litigando, cercando la via d’uscita migliore al messaggio più importante che sabato scorso il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ha riservatamente affidato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte nella cena di Bruxelles. Il senso, sviluppato fra una portata e l’altra, è stato questo: cari italiani, la questione più seria nella vostra legge di bilancio non è il reddito di cittadinanza, una misura modulabile in varie soluzioni che risponde ad un problema sentito in tutta l’Unione. La cosa più indigeribile della vostra manovra – ha spiegato Juncker – è la controriforma previdenziale. E non solo perché prefigura un’insidia strutturale alla sostenibilità del debito italiano. La Commissione europea è preoccupata che un passo indietro radicale nell’età pensionabile potrebbe dar corpo ad un «modello italiano»: l’inizio di un contagio, capace di innescare processi politici in altri Paesi dell’Unione, dove il problema dell’invecchiamento della popolazione e dei suoi costi è persino più grave.

I rischi del modello italiano

Certo, il ragionamento sul rischio del «modello italiano» è stato più sfumato, Juncker ha insistito sull’insidia strutturale di una spesa previdenziale che si impennasse, consigliando un’attenuazione di quella riforma, ma nell’establishment europeo (del quale Junker è un campione), la preoccupazione principale ha un’inclinazione diversa, ed è quella di un indebolimento dell’Italia e di un effetto-contagio (in questo caso finanziario) in tutta l’Unione.

Esattamente quel che accadde nel 2011: allora il governo Berlusconi cadde sulle pensioni per mano della Lega. Incalzato dalla Commissione e dalla Banca centrale europea, l’allora presidente del Consiglio mise in cantiere una riforma che intaccava quelle di anzianità. La Lega di Bossi e Maroni si mise di traverso, e non consentì un intervento che – dissero i leghisti di allora – avrebbe colpito al 65 per cento lavoratori settentrionali. Morale: il governo cadde e di quella riforma si dovettero far carico Mario Monti ed Elsa Fornero.

 

Oggi per il governo – e in particolare per la Lega, che su «quota cento» ha costruito gran parte del suo successo elettorale – trovare la via d’uscita è obiettivamente difficile. Mentre sul reddito si possono costruire svariati compromessi, sulle pensioni il rischio flop è altissimo. La missione impossibile è affidata a Giovanni Tria, che in questi giorni ha chiesto alla struttura tecnica del Tesoro di mettere a punto ipotesi meno costose rispetto all’uscita anticipata – e senza penalizzazioni – per tutti i sessantaduenni con almeno trentotto anni di contributi. «Spenderemo meno del previsto», fa sapere il sottosegretario leghista Claudio Durigon. In realtà l’obiettivo minimo delle nuove simulazioni è quantomeno di rispettare il budget dei sette miliardi (6,7 il primo anno) finora stimati.

 

Le nuove stime

La soluzione passa attraverso la correzione attuariale degli assegni. Di fatto si tratta di non riconoscere per il periodo di uscita anticipata (ovvero fino a un massimo di cinque anni) la rivalutazione della pensione nella parte calcolata con il metodo retributivo, abolito del tutto dalla riforma Fornero. Per essere ancora più chiari: per ogni anno di riposo in più il pensionando rinuncerebbe al tre per cento della pensione, fino a un massimo del dodici. Non è poco, ma molto meno dei numeri forniti dall’Ufficio parlamentare di bilancio che aveva ipotizzato tagli fino al trenta. È ovvio che in caso di uscita anticipata si pagherebbero meno contributi, e la pensione sarebbe più bassa. Nelle nuove stime di Tesoro e Ragioneria – considerate più corrette – si valuta la riduzione a parità di contributi versati, e in questo caso non sarebbe per l’appunto superiore al dodici per cento. Per rendere più digeribile il taglio i tecnici consigliano al governo di rinunciare anche al divieto di cumulo, la cui evidenza empirica non dimostra nessun effetto sostituzione con i più giovani e, anzi, rischia di creare sacche di lavoro nero, non nuovi posti.

LA STAMPA

 

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