Ventiseimila piante di marijuana, scacco al clan di Vibo Valentia: il figlio del boss Mancuso si pente, 18 arresti

di ALESSIA CANDITO

VIBO VALENTIA. L’ultima inedita strategia commerciale dei clan calabresi per il narcotraffico sfrutta droni, web e migranti. E’ sul web, infatti, che Emanuele Mancuso, figlio trentenne del boss Pantaleone, navigava alla ricerca dei migliori semini di canapa, che poi acquistava in enormi quantità. Formalmente tutto regolare, perché i semi possono essere comprati per collezionismo. Peccato però che il giovane rampollo della cosca Mancuso li abbia utilizzati per far crescere 26.000 piante di marijuana in enormi piantagioni sparse nel Vibonese.

Lo hanno scoperto gli investigatori della Questura di Vibo Valentia, guidata da Andrea Grassi, che con il coordinamento della Dda di Catanzaro diretta dal procuratore capo Nicola Gratteri, hanno ricostruito l’intera filiera di produzione della cannabis, riuscendo ad identificare tutti i personaggi coinvolti.

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A inventarsi il nuovo sistema è stato Emanuele Mancuso, classe 1988, già in carcere per estorsione. Ha iniziato un percorso di collaborazione con la polizia. Ora è accusato anche di associazione finalizzata alla produzione e al traffico di stupefacenti. Insieme a lui sono finite in manette 17 persone, accusate a vario titolo di aver fatto parte della filiera. Altre altre 21 risultano indagate a piede libero. Perquisite e sequestrate le 18 sedi di una società specializzata nella vendita di semi di canapa indiana, sparpagliate fra Alessandria, Brescia, Caltanissetta, Catanzaro, Chieti Genova, Imperia, Lecce, Milano, Napoli, Salerno e Savona.

È da lì – hanno scoperto gli investigatori – che arrivavano i semi poi impiegati in giganteschi campi nascosti fra Nicotera, Ioppolo e Capistrano, dove venivano coltivate le piante di marijuana in grado di produrre oltre 2 milioni di dosi di “erba”. Ad occuparsi di cura, gestione e irrigazione delle piantagioni erano i braccianti stranieri, molti dei quali provenienti dalla tendopoli di San Ferdinando.

Si tratta di una novità per i clan calabresi, che generalmente hanno sempre demandato alla propria bassa manovalanza la supervisione delle “coltivazioni”. Un incarico non particolarmente prestigioso, ma penalmente rischioso, per questo – spiegano gli investigatori – affidato a braccianti senza diritti e talvolta persino senza documenti. Mancuso e i suoi però, sebbene non fisicamente presenti, vigilavano sulle loro preziose coltivazioni, grazie ad alcuni droni che facevano volare per controllare sia i lavoratori sia le colture.

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