Archive for Agosto, 2021

L’indignazione non riempie le piazze

lunedì, Agosto 23rd, 2021

di GABRIELE CANÈ

Ha ragione Maria Elena Boschi; sarebbe stato bello che sui campi di calcio i giocatori si fossero inginocchiati in segno di rispetto e solidarietà per il popolo afghano. Sarebbe stato bello ripetere un gesto diventato un messaggio universale contro il razzismo. E cosa c’è di più razzista di schiacciare sotto il tallone della barbarie un intero popolo, e in particolare un genere del genere umano, le donne, offese, umiliate, restituite a una condizione di schiavitù fisica e intellettuale? Sarebbe bello che gli italiani che hanno sventolato le bandiere tricolori durante il lockdown…

Sarebbe bello che gli italiani che hanno sventolato le bandiere tricolori durante il lockdown, che sfilano, manifestano, plaudono agli striscioni che dai palazzi pubblici chiedono giustizia; sarebbe bello vederli in piazza, uomini e donne, a gridare la vicinanza alle madri che lanciano i figli ai soldati Usa, alle ragazze che non vanno più a scuola, alle femmine che non potranno più mostrare il loro volto.

Sarebbe stato bello vedere una reazione immediata, pubblica, di popolo. Per quello che valgono, ovviamente, questi gesti. Da cui non ci si aspettano risultati concreti, immediati, un passo dei talebani fuori dalla loro cupa religione, dalla loro ottusa inciviltà, ad esempio. Gesti, però, che ripetuti, diffusi, moltiplicati in mille piazze di mille paesi danno almeno forza ai governi, alla politica, per affrontare a muso duro un nemico pronto a colpire anche a casa nostra.

Invece, stiamo assistendo con rammarico a un fenomeno di evidente dissociazione tra l’impressione, e i timori, che in ognuno di noi suscita ciò che sta accadendo a Kabul, argomento di discussione in famiglia, tra amici, in vacanza, e la pochezza, il nulla delle reazioni collettive. Un dolore a schiuma frenata, al contrario di ciò che accade in tante altre occasioni forse meno rilevanti.

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Covid, scontro sul vaccino obbligatorio. “Per la polio si fece senza divisioni”

lunedì, Agosto 23rd, 2021

di GIOVANNI PANETTIERE

Manifestazione contro il Green pass
Manifestazione contro il Green pass

La prima vaccinazione di massa obbligatoria nell’Italia unita risale a fine Ottocento, contro il vaiolo, l’ultima è quella anti-epatite B sancita nel 1991. In mezzo le profilassi coatte per la difterite (1939), la poliomelite (1966) e il tetano (1968). D’imporre per legge, invece, il siero per prevenire la malattia da Covid-19 se ne parla tanto, ma poco o nulla si fa. In Parlamento come nel governo. “Eppure la vaccinazione obbligatoria per la pandemia in corso, se si vuole, si può prevedere – chiarisce lo storico della Medicina, Giorgio Cosmacini, 90 anni e tante publicazioni di successo alle spalle –. Non solo esiste una copertura giuridica data dall’art.32 della Carta costituzionale, abbiamo anche dei precedenti storici assolutamente significativi ancor prima della legge sulla polio”.

Da dove partiamo, professore?

“Pochi sanno che alla fine del ’700, nel periodo del dispotismo illuminato, la medicina diventa un’arte di difesa in seguito alla scoperta del vaccino contro il vaiolo. In quel contesto, nella Repubblica italiana napoleonica, prima, nel 1802, si decise d’inoculare gratuitamente la profilassi negli ospedali pubblici, quindi, un paio di anni più tardi, si comminò la dimissione dei sanitari colpevoli di ricusare la vaccinazione. Ben più diretto fu, invece, il segretario di Stato vaticano, il cardinale Ercole Consalvi, che nel 1822, negli Stati della Chiesa, non proprio i più brillanti allora per riformismo e progresso, impose l’obbligo della vaccinazione. Per i genitori inadempienti veniva disposta la multa di cinquanta baiocchi, una cifra non irrisoria”.

Si vede che non c’era una resistenza No-Vax organizzata come oggi.

“Tutt’altro, quella che c’è sempre stata. Nell’Emilia riluttante da sempre verso il potere papalino, dopo il disposto Consalvi, si ebbero veri e propri moti di protesta”.

Corsi e ricorsi storici, dunque, sotto quale comune ideologia?

“Ogni volta che si parla di vaccinazione obbligatoria assistiamo allo scontro fra due mentalità. Da una parte, l’idea libertaria della salute come bene privato sul quale lo Stato non deve mettere mano, dall’altra la concezione della salute come bene pubblico che le istituzioni sono chiamate a tutelare e sulla quale devono vigilare”.

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Auto elettriche, la vera svolta solo con le batterie a stato solido

lunedì, Agosto 23rd, 2021

di Nicola Desiderio

Tecnologia. Lo sviluppo delle e-car è legata allo sviluppo di celle più dense, stabili e ricaricabili più velocemente delle attuali Li-Ion. I grandi gruppi (da Toyota a Vw, da Mercedes a Ford) stanno lavorando con i principali produttori mondiali di accumulatori

Per permettere all’automobile di fare un salto vero verso l’elettrico, al di la dei paletti della Ue, è necessario che il salto sia compiuto dal suo componente principale: la batteria. In attesa che questo avvenga, i miglioramenti sono continui intorno alla tecnologia degli ioni di litio.

Gli obiettivi sono gli stessi per tutti gli attori in gioco: migliorare il rapporto tra energia, potenza, peso, volume e costo. Si lavora incessantemente su chimica, materiali, struttura e metodi di fabbricazione non solo per migliorare costi e prestazioni, ma anche per ottimizzare il recupero e il riciclo delle batterie e dei suoi preziosi componenti chimici guardando all’obiettivo della neutralità di CO2.

Una quadratura “circolare” difficile, ma assolutamente necessaria all’intera industria che su questo paradigma deve costruire un nuovo modello di business. La tecnologia più promettente è quella dello stato solido che promette più densità di energia, stabilità e velocità nella ricarica. Toyota sembra essere in anticipo e starebbe puntando sulla chimica degli ioni floruro, già nota alla Nasa e che permette di raggiungere una densità teorica 7-10 volte maggiore rispetto ai livelli attuali. Alle batteria allo stato solido lavora anche Volkswagen insieme a QuantumScape promettendo per il 2025 una densità superiore di 2,5 volte. Puntano allo stato solido anche Mercedes, che partirà dai bus eCitaro già nel 2022, e la Nio che sulla sua ET7 metterà a disposizione una batteria da 150 kWh. Sullo stato solido convergono Bmw e Ford, che stanno investendo su Solid Power, sul solfuro di litio e sulla possibilità di assemblare le nuove celle sulle stesse linee oggi utilizzate per le celle “liquide” con un risparmio sui costi di produzione del 40%. Secondo Tesla, lo stato solido rappresenta una falsa speranza e punta sulle nuove celle cilindriche 4680 (46 mm di diametro 80 di altezza) che hanno una densità di energia migliorata del 16% con costi inferiori del 14per cento .

Per ottimizzare forma e peso della batteria si guarda a celle di dimensioni sempre più grandi. Ci stano lavorando Byd, Catl e Lg Chem che, insieme a General Motors, ha realizzato batterie nelle quali le celle possono essere alloggiate in orizzontale o verticale e disposte su due piani, in più hanno il sistema di gestione wireless che riduce l’ingombro del 15%. In generale, si assiste ad un cambio di paradigma strategico.

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Scuola, dai controlli dei green pass alla quarantena: le incognite di settembre

lunedì, Agosto 23rd, 2021

A tre settimane dall’avvio delle lezioni in presenza le scuole non sono ancora pronte alla ripartenza. Vari i nodi da sciogliere. A mettere in fila alcune questioni sul tavolo e a chiedere al governo «risposte tempestive» è il presidente nazionale dell’associazione nazionale presidi Anp, Antonello Giannelli.

I controlli del green pass

Quest’anno debutta per docenti e personale amministrativo l’obbligo del green pass. Ma non è stato chiarito ancora come e con quale cadenza controllarlo. Si tratta di un nuovo adempimento rispetto al quale i dirigenti scolastici chiedono di saperne di più. Soprattutto per non ingolfare gli ingressi la mattina. Giannelli chiede di far dialogare il sistema informatico dell’Istruzione con l’anagrafe vaccinale delle Asl, così da poter fare i controlli in segreteria on line. Anche perché «a scuola entrano ogni giorno gli stessi docenti e gli stessi impiegati. Di cui l’83% è vaccinato. Quindi controllare ogni giorno 100 persone di cui 83 sono vaccinate non ha molto senso».

Supplenti e tamponi

Altra questione sul tavolo: come gestire il supplente che dal quinto giorno dovrà sostituire il docente assente ingiustificato, perché privo di green pass. Va poi verificata sul campo la gestione dei tamponi gratuiti al personale fragile munito di certificazione di esenzione dalla vaccinazione. Le scuole potranno utilizzare parte delle risorse straordinarie loro assegnate destinandole alla copertura dei costi per effettuare tamponi diagnostici «al personale scolastico, impegnato nelle attività in presenza e che si trovi in condizioni di fragilità sulla base di idonea certificazione medica». Questo significa che in tutti gli altri casi (docenti “no vax”, ad esempio, cioè coloro che si rifiutano di vaccinarsi pur potendo farlo) l’eventuale tampone per ottenere il green pass resta a proprie spese.

Quarantena e Dad

Giannelli chiede anche di snellire le procedure di messa in quarantena, «altrimenti al primo studente positivo, anche se vaccinato, rischiamo di dover mettere in quarantena la classe. E questo significa ritornare in Dad, naturalmente». Va ricordato a tal proposito che la quarantena per i vaccinati con contatti stretti con positivi è stata ridotta a 7 giorni con tampone alla fine del periodo. Resta 10 giorni per i non vaccinati.

Il nodo trasporti

E poi c’è il capitolo trasporti. La capienza del trasporto pubblico locale resta all’80%. Con il rischio di viaggiare su mezzi sovraffollati, dove la distanza non sempre può essere garantita. «Dentro le scuole non ci sono stati focolai perché nelle scuole c’è l’abitudine al rispetto delle regole. Ma sui trasporti, purtroppo – continua Giannelli – non c’è chi controlla né il distanziamento né l’utilizzo della mascherina».

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La nuova sfida di Draghi

lunedì, Agosto 23rd, 2021

Gian Micalessin

È un G7, ma l’attenzione sarà tutta per quel G20 a presidenza italiana che a settembre consentirà all’Occidente di confrontarsi con Cina e Russia, unici veri interlocutori dell’incognita talebana. E proprio per questo il ruolo di Mario Draghi, fresco di colloqui telefonici con Joe Biden, sarà cruciale. I conti sono presto fatti. Boris Johnson, l’araldo a cui è spettato l’annuncio del vertice, resta l’interprete della «relazione speciale» tra Londra e Washington. Ma un Regno Unito in fuga dall’Europa e in rotta di collisione con Mosca non è garanzia di grandi aiuti per un Biden azzoppato dalla débâcle afghana. Aggiungetevi un’Angela Merkel ad un passo dalla pensione ed un Emmanuel Macron in crisi di credibilità persino in Francia ed ecco un G7 fatto apposta per garantire un posto di rilievo a Draghi. Gli assi nella manica di un Supermario chiamato a soccorrere l’alleato Usa non si limitano alla presidenza del G20. Quella, senza rapporti pregressi, difficilmente darebbe frutti. Il primo rapporto essenziale è quello con Washington. Un rapporto forgiatosi ai tempi della presidenza Bce quando Draghi contribuì ad arginare, d’intesa con Washington, le frugali politiche finanziarie tedesche. Ma aiutano anche un pizzico di fortuna e di politiche ereditate dai governi pregressi. L’Italia, come dimostra la visita del ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, atteso a Roma il 26 agosto, resta uno dei pochi alleati europei in grado di mediare con un Cremlino reso ostile dalle politiche di Biden. Ma riallacciare con una Russia che non ha mai rinunciato al dialogo con i talebani è oggi indispensabile anche per la Casa Bianca.

Lo stesso vale per quel versante cinese dove sembra imminente un colloquio telefonico tra Draghi e il presidente Xi Jinping. Lì l’Italia può contare sulle relazioni speciali di Ettore Sequi. Il segretario generale della Farnesina, ex ambasciatore prima a Kabul e poi a Pechino, è il vero demiurgo del Memorandum sulla Via della Seta e del colloquio, venerdì, tra Luigi Di Maio e quel ministro degli Esteri cinese Wang Yi protagonista, a fine luglio, degli incontri con i talebani.

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Se Mattarella resta al centro della partita del Colle

lunedì, Agosto 23rd, 2021

Montesquieu

La politica italiana, l’intero nostro sistema istituzionale, iniziano con il semestre bianco una corsa ad ostacoli , che passa per la scelta del Capo dello Stato e si conclude con le elezioni delle nuove Camere. Di questo percorso il semestre bianco è, in realtà, poco più che il colpo di pistola che dà il via alla competizione sul futuro del nostro paese. Dopo un intero decennio di impotenza della politica, incapace di indicare e realizzare soluzioni di governo attraverso le elezioni, il nostro sistema istituzionale è ad un punto davvero critico, ad un passo dalla sua crisi. L’elezione del capo dello Stato si è trasformata, nel giro di cinque o sei lustri, da scelta di una figura di alta rappresentanza, ma di scialba influenza politica, a individuazione di un simbolo di riparo e protezione della nostra Costituzione, a seguito del progressivo distacco dalla stessa di pezzi crescenti della nostra comunità politica. Dapprima, a partire dai primi anni ’90, con la nascita di partiti non riconoscibili nella fisionomia tracciata nitidamente nell’art. 49 della Costituzione; quindi con la graduale recisione del legame tra eletti ed elettori (oggi non più né l’uno né l’altro). Una sciagurata, egoistica sequenza di leggi elettorali di fine legislatura ha trasferito la sovranità popolare ad un nuova oligarchia, quella dei capi di partiti per lo più personali e privi di democrazia interna. Una partitocrazia assai più invasiva di quella denunciata e combattuta nel secolo scorso da Marco Pannella e Giuseppe Maranini. Quindi, con l’avvento prepotente e inopinato di un movimento pagano rispetto ai principali sistemi democratici vigenti: artefice in pochi anni di atti di autentico vandalismo istituzionale, verso antichi rappresentanti degli elettori e le stesse Camere, gli uni e le altre non difesi dai partiti figli della nostra storia costituzionale. Una autentica omissione di soccorso.

L’elezione del capo dello Stato è il crocevia, il punto di snodo dell’intera situazione istituzionale. Sarà ancora, come fortuitamente accade dal lontano 1992, un difensore convinto, non solo sulla carta, dei nostri princìpi costituzionali, o avremo per la prima volta una personalità dalla incerta riconoscibilità istituzionale? Allo stato, i dati certi, o quasi, sono: i partiti di destra sovranista ed euroscettica, se supportati da Forza Italia, ad un passo dalla maggioranza del collegio elettorale composto dai parlamentari e dai delegati regionali; la impressionante dote di fiducia che il presidente uscente ha costruito anno su anno, sulla base di requisiti pesanti, di affidabilità, credibilità, serietà, terzietà, altruismo. Dote che però si accompagna alla più che presunta indisponibilità a quella rielezione che la sua popolarità ripropone ad ogni occasione.

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Afghanistan, corsa contro il tempo

lunedì, Agosto 23rd, 2021

PAOLO MASTROLILLI

DALL’INVIATO A NEW YORK. Kabul come Berlino. Anzi peggio, perché almeno durante il drammatico ponte aereo che all’inizio della Guerra Fredda salvò il settore occidentale della capitale tedesca dai sovietici, i soldati americani controllavano il territorio circostante. Nella città afghana invece sono circondati dai taleban, e la disperata corsa contro il tempo per evacuare i cittadini Usa e i loro alleati locali dipende da variabili fuori dal controllo di Washington, tipo la buona volontà dei nuovi padroni del Paese, e la speranza di evitare che gruppi terroristici approfittino del caos per colpire chi fugge. Finora, almeno, perché ieri il presidente Biden ha rivelato che «abbiamo allargato la zona di sicurezza intorno all’aeroporto. Sappiamo che i terroristi, come Isis, vorrebbero colpire. Speriamo di non dover estendere la scadenza del 31 agosto per l’evacuazione, ma ne stiamo discutendo». Quindi ha ringraziato l’Italia, tra gli alleati che lo stanno aiutando. Intanto l’Onu lancia l’allarme: l’Afghanistan affronterà una «catastrofe assoluta» con fame diffusa, persone senza casa e collasso economico a meno che non venga concordato un urgente sforzo umanitario.

Il parallelo con Berlino è giustificato dal fatto che ieri il Pentagono ha ordinato alle linee aeree civili di aiutare l’evacuazione. Per farlo ha invocato il Civil Reserve Air Fleet, un programma creato appunto nel 1952 per facilitare il ponte aereo sulla città tedesca, e poi usato altre due volte nella Guerra del Golfo e in Iraq. Il Pentagono ha richiesto in tutto diciotto aerei passeggeri: tre saranno forniti da American Airlines, Atlas Air, Delta Air Lines e Omni Air; due da Hawaiian Airlines; e quattro United Airlines. Non atterreranno direttamente nell’aeroporto Karzai di Kabul, che resta troppo pericoloso. Qui le operazioni continueranno a gestirle solo i militari, che con i loro mezzi faranno la spola tra l’Afghanistan e le basi americane in Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Qatar, per portare in salvo i cittadini americani, e soprattutto i circa 60.000 rifugiati locali costretti a fuggire per l’aiuto dato agli Usa. Le linee aeree civili subentreranno in questa fase dell’evacuazione, trasferendo i passeggeri nelle basi di passaggio individuate in Italia, Germania, Spagna ed altri paesi europei. I rifugiati poi proseguiranno verso uno dei 13 Paesi che hanno già accettato di ospitarli, oppure nelle basi individuate nel territorio degli Stati Uniti, che al momento sono Fort Lee in Virginia, Fort Bliss in Texas e Fort McCoy in Wisconsin. Presto però potrebbero aggiungersi la Joint Base McGuire-Dix-Lakehurst del New Jersey, Fort Pickett in Virginia, Camp Atterbury in Indiana, Camp Hunter Liggett in California, e Fort Chaffee in Arkansas. In caso di necessità, il Pentagono tiene aperta la possibilità di usare anche le sue basi in Italia, Germania, Giappone, Corea del Sud, Kosovo e Bahrain per ospitare i rifugiati. Il ponte intanto prosegue, e nelle ultime 24 ore sono state evacuate 3.900 persone a bordo di 23 voli, 14 condotti usando gli aerei da trasporto C-17 e 9 con i C-130.

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La democrazia e i diritti sono un «valore universale»

lunedì, Agosto 23rd, 2021

di   Sabino Cassese

Il fallimento della ventennale missione americana in Afghanistan ha confermato l’opinione di molti che la democrazia non possa essere trapiantata. La tesi che la democrazia non sia merce da import-export è antica. La sostengono coloro
per cui la democrazia è il prodotto di ogni singolo popolo: ogni società ha il suo diritto e sceglie il suo sistema politico. Le istituzioni politiche debbono essere di origine locale per poter essere accettate dalle rispettive società. Il principio di autodeterminazione dei popoli comporta che essi possano decidere di non scegliere ordinamenti democratici, optando per regimi politici di altro genere. Questo modo di ragionare continua così: ogni singolo popolo dovrebbe disinteressarsi della democraticità dei sistemi politici degli altri popoli.

La democrazia è un insieme di istituzioni maturate nel mondo occidentale e non è corretto ritenerla migliore di altri reggimenti politici e cercare di trasferirla in Paesi che hanno tradizioni diverse. È il popolo che decide le sue sorti e sceglie di intestarsi ed esercitare il potere, oppure di affidarlo ad altri accontentandosi di ordinamenti oligarchici, o autoritari, o dittatoriali, o totalitari.

Questo punto di vista, che chiamerò la versione estremistica della democrazia, ignora un cambiamento importante avvenuto nel mondo intorno all’inizio del nuovo millennio: il riconoscimento universale del diritto dei popoli alla democrazia. Già la dichiarazione internazionale (poi universale) dei diritti dell’uomo del 1948 e il patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ambedue adottati nell’ambito delle Nazioni Unite, facevano riferimento a una «società democratica». Poi, la dichiarazione delle Nazioni Unite del millennio, del 18 settembre 2000, prevedeva l’impegno a promuovere la democrazia e a rafforzare la capacità di tutti i Paesi di realizzarne i principi e le pratiche. Su questa base fu istituito il fondo delle Nazioni Unite per la democrazia e la parallela istituzione dell’Unione Europea. Questi, mediante finanziamenti ad associazioni private, promuovono dall’esterno la democrazia in molti Paesi del mondo.

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G7, i dossier sul tavolo. Draghi insiste: non si escludano Cina e Russia dai negoziati

lunedì, Agosto 23rd, 2021

di Marco Galluzzo e Viviana Mazza

Al vertice dei «grandi» a trazione britannica si discuterà di Afghanistan. I temi: lotta al terrorismo, sforzi umanitari, migrazione dei rifugiati. L’Italia: impossibile prescindere da Cina, Russia e India

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Draghi, Biden, Macron e von der Leyen al G7 in presenza a giugno

Il G7 di domani, sotto la guida britannica, sarà anche una scommessa. Potrà produrre una dichiarazione di meri intenti, concentrata sull’imperativo di un passaggio sicuro per coloro che vogliono lasciare l’Afghanistan e la necessità di una soluzione politica inclusiva che protegga i diritti fondamentali di tutti gli afghani, due temi principali che il summit dovrà affrontare.

Ma potrà essere anche un vertice in qualche modo zoppo, per il formato, per le grandi incertezze americane, per l’assenza al momento di una strategia di largo respiro, che coinvolga anche Cina e Russia. «I leader sono d’accordo che i rapporti della comunità internazionale con i talebani dipenderanno dalle loro azioni, non dalle loro parole», precisa il comunicato del dipartimento di Stato americano. Gli altri temi sul tavolo sono «la lotta al terrorismo, gli sforzi umanitari, la migrazione dei rifugiati».

Con il G7 in programma si incastrano questioni cruciali, ma di mera natura logistica, non di lungo periodo.

Il possibile prolungamento della data del 31 agosto per la presenza di 7.000 soldati americani all’aeroporto di Kabul (che il presidente Biden non ha escluso nel caso ci siano ancora cittadini statunitensi da evacuare) è stato auspicato da diversi alleati della Nato e dell’Ue, tra questi la Gran Bretagna. Intanto, il G7 dovrà guardare al futuro per «prevenire una crisi umanitaria e aiutare la popolazione afghana a difendere le conquiste degli ultimi vent’anni», nelle parole del premier britannico Boris Johnson.

E proprio Johnson ha discusso della crisi anche con il premier turco Erdogan: i due leader ritengono che «il nuovo governo afghano debba essere rappresentativo della diversità della popolazione afghana e proteggere i diritti delle donne e delle minoranze», secondo un portavoce, e hanno toccato anche la questione dei corridoi umanitari che sta dividendo l’Europa convenendo che «i Paesi devono impegnarsi per una condivisione dell’onere sugli aiuti ed i rifugiati e in questo sforzo sarà centrale il coordinamento delle Nazioni Unite».

Sul fronte italiano, dato per scontato il via libera all’uso delle basi americane su suolo italiano, come Sigonella, per la complessa operazione di evacuazione che Washington sta gestendo, il contributo che Mario Draghi porterà al tavolo del G7 di domani sarà almeno di duplice natura: da una lato la forte preoccupazione per tutti i civili afghani che resteranno nel Paese, passibili di ritorsioni e violenze anche per le ragioni più futili, compresa quella di essersi abituati ad uno stile di vita occidentale; dall’altra la consapevolezza e la sincerità nel ritenere un consesso come quello del G7 insufficiente per giocare un ruolo efficace nel condizionare il futuro del Paese sotto la guida dei talebani.

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Afghanistan, i gruppi armati e il rischio terrorismo

lunedì, Agosto 23rd, 2021

di Guido Olimpio

In Afghanistan l’Isis potrebbe contare su 2.000 combattenti. Le cellule qaediste sono presenti in almeno quindici regioni. Nell’area si muovono anche 10 mila mujaheddin stranieri. Cresce la paura per la presenza di infiltrati tra i profughi

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La foto «parla». Un aereo francese A400M decolla dalla pista di Kabul e lancia dispositivi per confondere eventuali missili puntati contro i motori. Uno scudo contro una delle tante minacce che incombono sulla capitale afghana. Più passano i giorni e più cresce il timore del terrorismo. L’esodo caotico, le difficoltà operative nel gestirlo, la confusione sono fattori ad alto rischio.

I fedeli del Califfo

Le fonti americane hanno messo in guardia sulla presenza di elementi dello Stato Islamico. Possono infilarsi per attaccare, ma anche mescolarsi a quanti premono per imbarcarsi sull’ultimo volo. Non si fanno scrupoli nel coinvolgere altri musulmani, peraltro persone che ai loro occhi sono dei collaborazionisti. Non è certo la fazione più importante nella regione, i suoi membri sono concentrati nella zona orientale di Nangahar e sono fronteggiati dagli stessi talebani. Tuttavia la lontananza dal centro non vuol dire che il pericolo sia remoto. In maggio sono riusciti a compiere un massacro proprio nella capitale, 85 le vittime, tra queste molte giovani e donne. Dimostrazione di forza, di crudeltà e di fedeltà alla strategia dell’attenzione mescolata a quella dell’orrore.

I combattenti

Gli analisti sostengono che la «provincia del Khorasan» — così è definito l’Afghanistan — conta su 1.500-2.000 combattenti, bombardati anche in modo massiccio dagli Usa. Probabilmente non sono del livello dei loro colleghi mediorientali, meglio però non sottostimare. E molti — a livello di scenario — prevedono che i ranghi potrebbero crescere nei prossimi mesi. I mullah non sono compatti, le loro unità dipendono spesso da consigli locali e basta poco per spingere chi dissente o i sostenitori della lotta ad oltranza nelle file dell’Isis. È accaduto in Somalia, con frange che hanno abbandonato gli Shebab per dare vita ad un nucleo oltranzista.

I seguaci di Osama

I rapporti dell’Onu stimano una presenza di cellule qaediste in almeno 15 regioni afghane, forse 18. Quanto alla consistenza numerica non è comparabile alla stagione d’oro, quando c’era bin Laden. La forbice valuta tra le poche dozzine e un paio di migliaia di membri. Cifre fluide, perché parliamo di una realtà dove non hai la tessera nello zaino. Inoltre il clima di vittoria potrebbe favorire il reclutamento. Più agevole quello all’interno dei confini afghani, dove non manca la materia prima. Anche se i talebani rappresentano il potere dominante e sono il naturale punto di riferimento.

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