Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Il populismo e l’adesione ai valori occidentali

martedì, Giugno 13th, 2023

di Massimo Franco

Il fatto che Silvio Berlusconi abbia plasmato non solo il centrodestra ma, quasi di rimbalzo, la stessa opposizione di sinistra, dilata gli interrogativi sul futuro. Non solo quello di Forza Italia, partito del quale era padrone, non semplice leader. Ma dell’intera maggioranza e, più in generale, del sistema politico. La fretta con la quale i fedelissimi assicurano continuità nel suo nome riflette questa incertezza. E acuisce l’impressione di un elettorato che si sente orfano.

Ma probabilmente sono altrettanto nostalgici molti dei nemici che hanno mostrato rispetto nei suoi confronti soprattutto quando non ne hanno avuto più paura: e cioè dopo almeno due decenni di subalternità culturale, prima ancora che politica; e dopo avere tentato e sperato a lungo di sfruttare i processi nei quali era imputato per metterlo fuori combattimento. La sua dote di federatore della nebulosa anticomunista è stata indubbia. E lo ha reso l’interprete più naturale di un sistema maggioritario fondato sulla personalizzazione del potere e su un’evocazione di «sogni» di cui un’Italia disorientata dalla fine della Guerra fredda si è nutrita golosamente.

Anche per questo Berlusconi è stato additato come una sorta di precursore del populismo: fenomeno che negli anni è stato imitato un po’ da tutti, e non solo in Italia. Eppure, accanto alla retorica antisistema Berlusconi ha tenuto ferma un’adesione ai valori occidentali, entrata in collisione con un’Europa assillata dal debito dei suoi Stati membri. L’allontanamento da Palazzo Chigi, nell’autunno del 2011, non dipese dagli scandali o dai processi ma dal rapporto conflittuale e compromesso con l’Unione europea; e dal rischio di un collasso finanziario dell’Italia per le riforme mancate.

Nella narrazione berlusconiana e in quella dei suoi ammiratori, perfino in Vaticano, ristagna la tesi del complotto ordito dal Quirinale e dai «poteri forti» internazionali. Da allora, il Cavaliere non ha smesso di rivendicare le sue ragioni e alimentare la propria leggenda di vincente. Senza tuttavia riuscire, anche psicologicamente, a preparare una successione: come se la storia di FI dovesse cominciare e finire con lui. Probabilmente era inevitabile. Per questo non sorprende il vuoto che lascia. L’omaggio tributatogli dalla premier Giorgia Meloni e dal capo della Lega, Matteo Salvini, oltre che dovuto a chi li ha portati al governo nell’ormai remoto 1994, è un segnale al suo mondo.

Esiste un bacino di consensi oggi ridotti, come hanno dimostrato le elezioni del 25 settembre del 2022. Eppure tuttora ancorati alla personalità berlusconiana, al suo ruolo nel Partito popolare europeo, e a un moderatismo che Meloni e Salvini non rappresentano né intercettano pienamente. Si tratta dunque di voti «strategici», e da ieri più che mai in libera uscita: anche se difficilmente potranno essere ereditati in automatico dagli alleati; tanto meno dagli avversari storici. Renderanno semmai più acuta l’esigenza di trovare un contenitore in grado non solo di esprimerli ma di aumentarli.

In questi mesi, pur soffrendo per lo spostamento dei rapporti di forza a favore di FdI, e nonostante l’imbarazzo di Palazzo Chigi per la sua amicizia con Vladimir Putin, Berlusconi è rimasto un elemento di stabilità e di garanzia per l’unità di un centrodestra sbilanciato a destra. Adesso, la competizione tra Meloni e Salvini non avrà più la mediazione del leader di Fi, ma solo quella della famiglia e del ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Per il resto, la maggioranza si troverà di fronte un partito oggettivamente in bilico. E questo potrebbe rendere urgente una fase nella quale sia Meloni, sia Salvini dovranno ricalibrare la propria identità.

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Un leader che ha cambiato la politica, i partiti e gli avversari. E adesso? Finisce la Forza Italia di Berlusconi, ma restano quei voti e gli ideali

martedì, Giugno 13th, 2023

L’analisi del direttore del Corriere della Sera sul leader che ha caratterizzato la storia politica italiana degli ultimi 30 anni

Luciano Fontana / CorriereTv

Silvio Berlusconi (morto il 12 giugno all’età di 86 anni, all’ospedale San Raffaele di Milano) è il leader politico che ha seguito tutta la storia politica italiana degli ultimi 30 anni: è stato il leader che ha garantito la continuità al centrodestra. Ha cambiato la politica radicalmente, prima perché ha cercato di mettere insieme l’Italia silenziosa che si è ritrovata sotto alchimie politiche particolari (le alleanze con Bossi e Fini). Per tanti anni ha diviso l’Italia tra berlusconiani e anti-berlusconiani.
Berlusconi ha avuto sempre un rapporto diretto con gli elettori e ha plasmato il suo campo, sapeva semplificare, sapeva “vendere” prima nel campo delle imprese, poi nel campo della politica.
(Luciano Fontana)

CORRIERE.IT

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La sinistra riscopre la famiglia allargata

lunedì, Giugno 12th, 2023

Alessandro De Angelis

Chapeau: il “ricongiungimento familiare” di Articolo 1 al Pd è un capolavoro politico di Speranza e Bersani. Mai si era visto: una corrente esce da un partito, fa un percorso per verificare il consenso nella società, che non trova, poi rientra, tornando corrente, nel partito più grande da cui si è scisso, e ne conquista sostanzialmente l’egemonia, nell’ambito di un racconto di un Pd più “di sinistra”, quantomeno a parole.

Sentimenti e parentele a parte, la vicenda è il paradigma della sinistra in questi anni, in cui tutto ruota attorno all’abilità di manovra di nomenklature e gruppi organizzati, slegata dal progetto e dal tema del popolo (ciò che Gramsci aborriva). E all’ineluttabilità di un meccanismo (correntizio), eternamente uguale a se stesso, che è stato il vero punto di collasso. E che Elly Shlein non ha la forza di rompere. In fondo, proprio sulle correnti, si è ritagliata un ruolo da surfista: finge l’estraneità per preservare l’immagine di novità, le utilizza quando come in questo caso sono a favore, non fa mai nulla contro, neanche quando sono contro di lei. Per cui si comprende che nel suo cuore vorrebbe dire basta alle armi a Kiev, ma non può perché c’è Guerini, vorrebbe dire sì alla maternità surrogata, ma non può perché ci sono i cattolici, non vorrebbe il termovalorizzatore, ma c’è Gualtieri.

Si dice: troppo radical (con o senza chic). In verità, c’è solo una chiacchiera, un po’ gauchiste, ma non una linea di vera discontinuità. Emblematico il “siamo a favore del sostegno a Kiev ma contro i proiettili”. Per cui anche l’assemblea di Napoli, esteticamente di sinistra, nella sostanza non è estranea al quel film che, in modo particolarmente efficace, una giornalista senza retropensieri come Concita De Gregorio ha riassunto così: ascolti Elly Schelin per un’ora, poi guardi gli appunti sul taccuino e non c’è nulla. Icastica l’assenza di uno straccio di titolo sui migranti, uno dei terreni, assieme all’insicurezza sociale, su cui le sinistre europee si sono giocate le elezioni (Svezia, Finlandia, ma anche Italia) o se le giocheranno (Spagna).

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Migranti, una crisi che divide

lunedì, Giugno 12th, 2023

di Maurizio Ferrera

La vulnerabilità rispetto agli arrivi dipende dalla posizione geografica: più alta per i Paesi del Sud, Italia e Grecia in testa. Quindi è diverso l’approccio al problema

Migranti, una crisi che divide
Immigrati sbarcati a Lampedusa (Ansa)

Seppure con molte difficoltà, le crisi dell’ultimo quindicennio (euro, Brexit, pandemia) hanno portato a un significativo rafforzamento della solidarietà europea. Ricordiamo il sostegno ai Paesi in difficoltà da parte della Banca centrale europea o la compattezza con cui Bruxelles ha gestito la Brexit, tutelando l’interesse comune Ue. E pensiamo al Next Generation Eu, l’ambiziosa strategia per la ripresa e la resilienza, con le sue sovvenzioni a fondo perduto finanziate da debito comune.

L’unica crisi che non ha sinora trovato uno sbocco unitario è quella migratoria. Deflagrata nel 2016 con la massiccia ondata di profughi siriani, l’emergenza non si è mai risolta: tutti gli sforzi per gestire i flussi tramite un sistema integrato a livello europeo sono miseramente falliti. Nel 2020 la Commissione europea ha proposto un Patto sull’immigrazione: procedure uniformi e più rapide alle frontiere esterne, condivisione degli oneri tramite i ricollocamenti cross-nazionali e cooperazione con i Paesi di origine. Dopo l’invasione di Putin, la buona gestione dei rifugiati ucraini faceva ben sperare. Invece l’accordo di giovedì scorso fra i ministri degli Interni si è limitato a pochi e modesti ritocchi del sistema attuale.

L’unica innovazione è un embrionale meccanismo di solidarietà, che prevede una quota di ricollocazioni obbligatorie oppure — se un Paese è contrario — il versamento di ventimila euro per ogni migrante rifiutato.

Perché è così difficile raggiungere una soluzione comune? L’immigrazione sfida un elemento costitutivo dello Stato moderno: il potere di controllare chi entra nello spazio nazionale e può goderne i benefici (diritti, lavoro, welfare). L’integrazione europea è riuscita nel tempo ad abolire quasi interamente le frontiere interne e a liberalizzare la circolazione di merci, capitali, servizi e persone. Per spostarsi in Europa i nostri nonni dovevano chiedere il visto, i nostri figli non si accorgono nemmeno di attraversare le linee di confine entro l’area Schengen, e quando si trovano in un altro Paese Ue hanno gli stessi diritti dei nativi. Raggiungere questo risultato straordinario non è stato facile. Lo ha mostrato la Brexit: gli inglesi l’hanno appoggiata perché impauriti dalla supposta «invasione» di cittadini est europei (polacchi, rumeni) dopo che i loro Paesi erano entrati nella Ue fra il 2004 e il 2007.

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Arena climatica e voto europeo. Destre in marcia, sinistre ferme

lunedì, Giugno 12th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Il futuro arriva così, con un cielo arancione, scrive Paul Krugman sul New York Times, alla fine di una settimana inutilmente cruciale per il Pianeta. Lunedì la Giornata mondiale dell’Ambiente, giovedì la Giornata mondiale degli Oceani. In mezzo, uno stillicidio inquietante di piccole catastrofi locali, che suggeriscono un’incipiente Armageddon globale. Lo skyline della Grande Mela infuocato dalla fuliggine di un mastodontico incendio nel Canada. E poi il disastro epocale della diga Khakovka che allaga mezza Ucraina, e quasi ricorda la devastante alluvione che ha appena sommerso la Romagna. E infine Greta Thunberg che ormai ventenne prende il diploma e si congeda idealmente dagli scioperi dei Fridays for Future.

La Rivoluzione Verde non è un pranzo di gala. Ancora non ce ne rendiamo conto, ma sarà proprio questo il vero campo di battaglia delle prossime elezioni europee del 2024: l’Agenda Ambientale, i suoi obblighi, i suoi costi industriali, occupazionali, sociali. Lo conferma Matteo Salvini, che come sempre sente l’odore del sangue e va subito a caccia. Stavolta la sua preda è “quell’ubriacone” di Hans Timmermans, vicepresidente della Commissione Ue e fiero fautore del blocco delle auto a benzina e diesel tra 12 anni: un’idea “da ricovero coatto”, tuona il Capitano leghista, aprendo le ostilità contro la “maggioranza Ursula” proprio a partire dal Global Warming. Un’emergenza che imporrebbe l’accelerazione di scelte drastiche già indicate dalle Conferenze di Rio e di Kyoto, di Parigi e di Glasgow. Ma la sporca guerra di Putin ha stravolto piattaforme politiche già vaghe ed esitanti. In un mondo diventato improvvisamente più chiuso e più piccolo, i governi fanno i conti con la super-inflazione e le nuove dipendenze energetiche (ieri succhiavamo gas russo, domani pomperemo terre rare cinesi).

Scoprono il prezzo da pagare alla transizione ecologica. E dunque, mentre rinnovano l’impegno formale al contrasto dei cambiamenti climatici, riscrivono i rispettivi Green Deal in base al proprio interesse nazionale.

Antonio Tajani, ministro degli Esteri nel governo dei Fratelli meloniani, conosce a fondo le logiche comunitarie dopo gli anni da commissario e poi da presidente del Parlamento. Dopo la tre giorni italiana dell’alleato Manfred Weber, non ha dubbi. Lasciate perdere il fascismo e l’antifascismo, lo scontro tra liberalismo e autoritarismo, la contesa tra le triadi Dio-Patria-Famiglia e Pride-Gender-Lgbtq+. Di qui al voto della prossima primavera la vera faglia tra destre e sinistre in Europa saranno le norme sulla Casa Green, sul blocco delle auto a benzina e diesel, sui fertilizzanti in agricoltura, sul Nutriscore, cioè il sistema di etichettatura dei prodotti alimentari. Questioni concrete, che riguardano la vita pratica di tutti i giorni e le persone in carne e ossa: famiglie, consumatori e imprenditori. Su queste si giocherà la partita del consenso.

Francesco Rutelli ex ministro della Cultura ed ex sindaco di Roma, conosce ancora più a fondo le mutazioni ambientali e le relative implicazioni politiche. E nel suo illuminante “Il Secolo Verde” (appena uscito da Solferino) le spiega come meglio non si potrebbe. Le agende nazionali e personali fanno i conti con nuovi conflitti strategici e con scelte materiali che cambiano radicalmente le nostre società. Le domande ricorrenti, tra le opinioni pubbliche del Continente, sono sempre le stesse: “È giusto obbligarci a rendere le nostre case più efficienti dal punto di vista energetico”, in nome del solito “arrogante dirigismo dell’Europa?”. “Dobbiamo per forza buttare le vecchie caldaie a metano, per montare impianti fotovoltaici che costano fino a 10 mila euro?”. Oppure: “Per ridurre le emissioni in città serve davvero ridurre la velocità delle auto a 30 chilometri all’ora?”. “Dobbiamo per forza rottamare le macchine a benzina, e comprare quelle elettriche che non costano mai meno di 25 mila euro?”. Per ora le risposte oscillano tra il sacrificio ineluttabile degli ambientalisti militanti (tendenza Carlo Marx: il capitalismo che inquina si abbatte, non si riforma) e il maleficio inaccettabile dei negazionisti impenitenti (tendenza Groucho Marx: perché devo fare qualcosa per i posteri, cos’hanno fatto questi posteri per me?).

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La cura della Bce è l’unica giusta, il governo pensi alle riforme

sabato, Giugno 10th, 2023

Stefano Lepri

Doveva succedere. O meglio, era probabile che succedesse, questa gelata brusca dell’economia italiana segnalata dalla produzione industriale, pur se si sperava di poterla evitare. Dopo il forte aumento dei tassi di interesse che la Bce ha deciso da dieci mesi a questa parte, le imprese hanno cominciato a risentirne, e hanno ridotto l’attività.

Piaccia o no, è questa l’unica cura disponibile contro l’inflazione che corre, e che ha ridotto il potere d’acquisto di noi tutti. Si era sperato che questa volta potesse essere meno dolorosa: ovvero, che calibrando bene, si potesse realizzare un rallentamento capace di allentare le pressioni sui prezzi senza arrivare a una recessione vera e propria, dove qualche posto di lavoro andrà perso.

È difficile trovare la misura giusta per 20 Paesi diversi tra di loro. Basti pensare che a fronte di questo cattivo andamento della produzione in aprile in Italia la dinamica del costo della vita è rallentata meno che nei Paesi vicini. Lo stesso fattore che finora ci aveva sostenuto, il buon afflusso di turisti, ha probabilmente contribuito all’aumento dei prezzi.

Va detto che il governo non ha nessuna colpa diretta. Si è però fatto male da solo, sopravvalutando il significato di alcuni dati congiunturali positivi di inizio anno: ancora ieri mattina, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni vantava che il nostro Pil era cresciuto oltre la media europea. E nelle settimane scorse il Tesoro aveva fatto circolare critiche contro certi previsori non abbastanza ottimisti.

Siamo tutti nella stessa barca, nell’area euro. Entriamo in una fase delicata perché si cominciano ad avvertire gli effetti negativi della stretta sui tassi quando ancora l’inflazione non è discesa abbastanza. Anche questo era prevedibile: gli studi sul passato mostrano che occorre circa un anno e mezzo prima che il caro-denaro si rifletta in pieno sull’andamento degli affari.

Sbagliare è facile proprio a questo punto. Milton Friedman, maestro del neoliberismo, pur essendo del tutto convinto che la cura contro l’inflazione siano gli alti tassi, esortava a non comportarsi come “lo sciocco nella doccia” a rischio di scottarsi o gelarsi perché non si rende conto che occorrono parecchi secondo prima che il gesto sul rubinetto modifichi la temperatura dell’acqua.

Proprio per evitare questo pericolo, le banche centrali agiscono sui tassi con mosse successive (sette finora per la Bce, in 10 mesi) valutando nel frattempo tutti i segnali disponibili. Sotto la doccia si può provare e riprovare per ottenere il risultato voluto; e qui il paragone cessa di essere utile, perché se si fa una pausa troppo lunga si rischia di dover stringere molto di più, e più dolorosamente, dopo.

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A Kiev può bastare un pareggio confuso

venerdì, Giugno 9th, 2023

Lucio Caracciolo

Mario Draghi è stato molto chiaro nel suo discorso a Boston: l’Ucraina deve vincere la guerra contro la Russia. La sua sconfitta o un “pareggio confuso” aprirebbero scenari insopportabili per l’Europa e per il mondo. Il trionfo di Kiev le spalancherebbe le porte dell’Unione europea e le consentirebbe di mettersi “in viaggio” verso la Nato. Infine, segnalerebbe alla Russia e ai suoi sostenitori che la stagione dell’espansione imperiale è chiusa. Per sempre. Su questa base, tocca dunque definire la vittoria. Che cosa può significare questa parola oggi per l’Ucraina? In termini strettamente militari, la resa degli ultimi marinai russi a Sebastopoli dopo avere autoaffondato la flotta. A conclusione della penetrazione ucraina in Crimea e nelle quattro regioni annesse e più o meno occupate da Mosca. Bandiera bianca subito sostituita dal kievano bicolore blu-oro.

Sigillo della riconquista integrale dei territori invasi dalla Russia, come da linea fissata da Zelensky dopo che le trattative per un “pareggio confuso”, avviate dalle parti nel marzo 2022, furono messe nel cassetto da Kiev su pressione inglese e americana – ammesso che i russi fossero davvero disposti a firmare la “pace”.

In vista di questo obiettivo, conviene ricordare che la guerra ha almeno due dimensioni, non necessariamente parallele: sul piano tattico, i combattimenti fra russi e ucraini, con questi ultimi oggi totalmente dipendenti dall’aiuto militare, finanziario e propagandistico americano, molto meno europeo; su quello strategico lo scontro fra America e Russia. La resa di Sebastopoli – senza nemmeno un Tolstoj a raccontarla – significherebbe non solo la vittoria di Kiev su Mosca ma soprattutto il successo dell’America sulla Russia. Con cambio di regime al Cremlino e probabile disintegrazione dello Stato russo. Non c’è dubbio che Kiev voglia le due vittorie. Così come è certo che tutta l’avanguardia antirussa della Nato, centrata sulla Polonia, ne gioirebbe. Il problema è che Washington vuole la prima, mentre non pare affatto convinta dell’utilità della seconda. In ciò seguita in ambito Nato da Francia e Germania per convinzione strategica, dall’Italia e dal Regno Unito perché schierate con gli Usa a prescindere, dalla Turchia quale soggetto imperiale autonomo che contribuisce a tenere in piedi l’antico nemico russo perché subisca il più a lungo possibile i danni della guerra che volle scatenare.

Quanto alla vittoria ucraina sul campo, il Pentagono e la Cia non ci credono, almeno per l’anno in corso. E il prossimo è ipotecato dalla campagna presidenziale: Biden non intende esporsi alle bordate repubblicane contro l’impegno in Ucraina, sempre meno popolare con il passare del tempo. Riguardo alla seconda, gli americani saluterebbero il tracollo del regime, molto meno le sue probabili conseguenze. Perché il surrogato di Putin non sarebbe necessariamente migliore dell’originale. E soprattutto per il rischio molto concreto di disintegrazione dello spazio russo. Con accompagnamento di guerre civili all’ombra di seimila testate atomiche e penetrazione della Cina in Siberia. Nell’establishment americano c’è chi sostiene valga la pena accettare il rischio. Ma la maggioranza resta affezionata alla “dottrina Eisenhower” fissata nel 1953, per cui non c’è nulla di peggio della vittoria totale in una guerra totale contro Mosca. Perché implica lo scontro atomico. E perché il vincitore avrebbe la scelta fra occupare e gestire il vinto – con ciò scadendo a classico impero-caserma, contro la sua natura liberale – o lasciare che se ne occupi, a suo modo, il super-nemico di oggi e di domani: la Cina. La divaricazione strategica fra Kiev e Washington è cartografata nella mappa della Russia spartita che il capo del controspionaggio ucraino, generale Kyrylo Budanov, esibisce alle spalle del suo tavolo di lavoro. Con mezza Siberia assegnata alla Cina, massimo rivale del suo maggiore sponsor.

Alla vigilia dell’invasione Biden aveva fissato il limite del sostegno americano all’Ucraina: «Gli Stati Uniti non vogliono fare la guerra alla Russia». Principio cui non ha abdicato. Con l’aggiunta di un codicillo: se Putin intende fare una “incursione minore”, sopporteremo. Purché si fermi lì. Due affermazioni che oggi si svelano troppo impegnative, se non imprudenti. La seconda, meno rilevante, perché rivelatrice del retropensiero per cui gli ucraini avrebbero dovuto subìre la “incursione minore” (tradotta estensivamente in putinese quale “operazione militare speciale”, ovvero golpe armato a Kiev) per consentire ai grandi un pareggio non troppo confuso. La prima, fondamentale, perché togliere dal tavolo la tua pistola alla vigilia dell’aggressione russa, e confermare in guerra di non volerla usare lasciando che lo facciano gli ucraini finché gli darai le pallottole per caricarla, significa mettere in conto la non-vittoria, se non la sconfitta, di chi combatte anche per te e per i tuoi valori. Sicché oggi, mentre Kiev si sta dissanguando anche per l’America e per l’Occidente, Washington si dissocia dalle incursioni minori in Russia di commandos collegati all’Ucraina e da analoghi atti “terroristici”, compreso il lancio di missili e droni verso il territorio della Federazione Russa.

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Senza le riforme il Pnrr fallisce

venerdì, Giugno 9th, 2023

Massimo Cacciari

Le spesse coltri di fumo su argomenti magari importanti, ma oggi non certo nelle cure del 99% dei nostri concittadini, tipo Gay Pride, vicende Rai, utero in affitto e via dicendo, coprono drammatici problemi che i nostri nocchieri non sembrano in grado di affrontare. Che essi dovessero emergere era inevitabile. Il primo riguarda la “messa a terra” del famoso Pnrr. Già la redazione draghiana avrebbe dovuto sollevare fondate perplessità. In essa debordavano, svolti spesso in una chiave retorico-ideologica, i nobili temi della innovazione, digitalizzazione, green economy. I necessari interventi hard su infrastrutture viarie e ferroviarie, per metter finalmente mano a massicce opere pubbliche per un’efficace difesa del nostro dissestato territorio, quelli per segnare un deciso cambio di rotta in tema di rilancio delle politiche di Welfare, seguivano a rispettosa distanza nella mente dei suoi tecnici redattori.

Con la conseguenza di trovarci oggi di fronte a una scomposta rincorsa da parte di miriadi di enti per miriadi di progetti “innovativi” e a opere pubbliche indispensabili come gli stadi per il calcio, che in tutto il mondo sono affare dei privati.

Ma il nodo che oggi viene al pettine è un altro, anch’esso ben prevedibile. L’attuazione del Pnrr era strettamente collegata a un piano organico di riforme. In questo almeno le Autorità europee erano state chiare. Il Piano poteva e può costituire un effettivo rilancio economico-sociale soltanto se si modificano le strutture amministrative e le procedure con cui svilupparne gli obbiettivi. Si veda il contenzioso sulla Corte dei Conti. La diatriba tra rigore ragionieristico e velleità decisionistiche è destinata a durare in eterno fino a quando non si approntano norme nuove in materia di controlli e appalti e non si dotino gli enti pubblici di strutture tecniche adeguate. Senza semplificazione amministrativa, sburocratizzazione, testi unici, superamento del conflitto di competenza tra amministrazioni pubbliche, continueremo a baloccarci tra vuote ideologie efficientistiche e altrettanto impotenti velleità controllistiche. Ancora più evidente l’esempio della sanità. Potremo anche stanziare miliardi di miliardi senza ottenere alcun effetto fino a quando non si comprende che è sballato l’assetto istituzionale del sistema, in cui ogni Regione è pressoché sovrana, in cui nessuna Autorità di fatto regola e coordina la spesa, in cui il rapporto tra pubblico e privato si squilibra a favore di quest’ultimo ogni giorno di più. E tutto questo rimanda di necessità a una profonda revisione in tema di Autonomie e di riassetto dei poteri tra i diversi soggetti che per la Costituzione compongono il nostro Stato. Diritto fondamentale la possibilità di accedere a cure mediche, altrettanto quello dell’istruzione. Capitoli fondamentali di quello Stato sociale che sta cadendo a pezzi. Come la sanità così la scuola, che ha cessato di funzionare come promozione sociale, opportunità primaria per la crescita culturale ed economica della persona. E saranno investimenti in computer e nuovi apparecchi per didattica on line e via cantando le meravigliose e progressive sorti della Tecnica a migliorare la situazione? O non piuttosto docenti motivati e decentemente pagati? O non piuttosto borse di studio, pre-salari, case per lo studente?

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Le nostre democrazie sedotte e consumate dai demagoghi che volevamo distruggere

venerdì, Giugno 9th, 2023

Lucia Annunziata

Sedotte e (forse) abbandonate. C’è una fascinosa idea che circola da un po’ di tempo, nel mondo della geopolitica: la chiamano la teoria della seduzione. È quel processo che non avevamo previsto, né visto, arrivare. Mentre provavamo, per quasi tre quarti di secolo dopo il conflitto mondiale, a proporre il nostro modello democratico per sedurre i Paesi sotto il giogo dei dittatori, i dittatori hanno cominciato a sedurre noi. Cronaca sintetica e devastante dei primi anni Venti del secolo Duemila. L’America è un buon luogo da dove iniziare per individuare questa dinamica, ma in Europa l’effetto seduzione è altrettanto palese. Parte delle élite economiche, degli eletti ma anche dei cittadini Occidentali sembra ormai pensare che forse alla fine questa storia dell’uomo solo al comando non è mica tanto male.

In epoca di crisi economica (a partire da quella del 2008), di transizioni epocali (clima e tecnologie), di cigni neri, come pandemie e guerre, il processo decisionale dell’Occidente appare sempre più disfunzionale, le opinioni pubbliche troppo divise, e i patti sociali, che hanno costruito dopo la seconda guerra un benessere senza precedenti, obsoleti. Un governo con un vertice forte, uomo o donna al comando, decide con velocità, può mettere insieme maggioranze per ottenere leggi altrimenti divisive, può sciogliere i “lacci e lacciuoli” del sistema di pesi e contrappesi della democrazia, fra cui le istituzioni di controllo che sono gli organismi che garantiscono i cittadini nello e dallo Stato.

Val la pena, come dicevo, di iniziare dall’America. La più giovane democrazia del mondo (la dichiarazione di Indipendenza è del 1776) è invecchiata. Questa è la storia che nei mesi scorsi ci hanno raccontato i ripetuti capitomboli del Presidente Biden, che a 80 anni ha ancora di fronte a sé come avversario un Trump di 76 anni.

La più giovane, dunque vitale, democrazia, famosa per la sua energia, la sua dinamica classe dirigente, capace di inventare continuamente nuove forme di partecipazione, in grado di dare forma a un potere fatto di eventi, linguaggi, ognuno dei quali ha influenzato questo secolo – il soft power dei successi ingegneristici e di quelli della parola – facendo immaginare di poter guidare il mondo con il minimo di uso di apparati militari, questa nazione si è avvitata sulle proprie divisioni. Al punto che per acrimonia anche se non per sangue si descrive oggi come nel pieno di una guerra civile. I due anziani presidenti degli anni recenti sono diventati coloro ancora in grado di parlare all’intera nazione proprio perché sono quello che una volta era l’America. Ma hanno l’energia e soprattutto la proiezione intellettuale nel futuro per tenere la guida di un Paese così potente?

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Democrazia e armi: la guerra e le nostre fragilità

giovedì, Giugno 8th, 2023

di Angelo Panebianco

Nulla in modo più netto e più drammatico delle guerre è in grado di portare alla luce certe fragilità delle democrazie. Le democrazie moderne (quelle antiche erano un’altra cosa) vivono con molto più disagio dei regimi autocratici le guerre in cui sono coinvolte. Si capisce perché: la democrazia è un sistema costruito per risolvere pacificamente (attraverso elezioni e pubblici dibattiti) le dispute fra i suoi cittadini. Essendo l’antitesi della risoluzione pacifica dei conflitti, la guerra la mette in gravi difficoltà.

Da un lato, mentre la democrazia esige, nel suo funzionamento quotidiano, trasparenza , pubblicità degli atti compiuti dai governanti (perché solo la pubblicità, la trasparenza, consente agli elettori di giudicare il governo), la guerra, per sua natura, richiede, in molte decisioni, opacità, riservatezza, assenza di trasparenza: non è alla luce del sole che si possono fare piani di guerra né si possono sbandierare, se non per grandissime linee, i piani di sostegno militare a chi, come oggi gli ucraini, è impegnato a combattere. Dall’altro lato, se e quando una democrazia è coinvolta direttamente in una guerra che rappresenti per essa una minaccia esistenziale, deve rinunciare a certe libertà il cui godimento è o dovrebbe essere pacifico in tempo di pace. Durante la Seconda guerra mondiale le democrazie occidentali adottarono, come era inevitabile, forme di censura e di controllo della popolazione che, fortunatamente, finita l’emergenza bellica, poterono abbandonare.

Infine, la democrazia deve fare costantemente i conti con gli umori dell’opinione pubblica. Con il rischio di oscillazioni nella condotta internazionale dei suoi governi che, in caso di crisi bellica, possono compromettere o frustrarne gli obiettivi e lederne gli interessi.

A una ragione per così dire «strutturale» (legata alle caratteristiche della democrazia in generale) va aggiunta, nel caso dei Paesi europei, una ragione storica. Che è poi una felice circostanza: la lunga pace di cui le democrazie europee hanno goduto e che spiega lo stato di disorientamento delle loro opinioni pubbliche di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, di fronte al ritorno della guerra nel cuore dell’Europa. È vero: c’era stato il precedente delle guerre jugoslave ma esse avevano coinvolto solo piccole potenze non in grado, a differenza della Russia, di minacciare una guerra generale.

Una spia evidente delle difficoltà delle democrazie europee di fronte alla guerra in Ucraina è data non tanto dalla continua richiesta di «soluzioni diplomatiche» che dovrebbero essere sponsorizzate da «terze parti» non coinvolte direttamente nel conflitto, quanto dal modo in cui si pretende che tali soluzioni diplomatiche vengano cercate: alla luce del sole, in modo trasparente, visibile a tutti.

Le opinioni pubbliche, o parti di esse, hanno bisogno di sentirsi dire che qualcuno sta facendo qualcosa. Naturalmente, di questo «qualcosa» che si sta facendo per porre termine al conflitto devono essere date al pubblico prove tangibili. Da qui la lunga serie, fin da quando è iniziata l’invasione russa, di tentativi di mediazione ben documentati e pubblicizzati dalle televisioni e dagli altri mezzi di comunicazione. Quale ne sia la funzione è chiaro: rassicurare il pubblico («stiamo cercando una soluzione diplomatica») . Ma, di sicuro, se un giorno soluzioni diplomatiche al conflitto emergeranno non saranno certo colloqui alla luce del sole che ne porranno le premesse. Saranno invece quei canali di comunicazione, informali e al riparo dalla pubblica curiosità, che (spesso se non sempre), durante le guerra, vengono attivati fra i nemici e fra i loro sponsor e principali alleati. La democrazia vorrebbe trasparenza persino nelle trattative e nelle negoziazioni condotte in parallelo ai combattimenti sul terreno. Ma si può scommettere che quando i rapporti di forza ( a loro volta decisi dall’andamento delle battaglie per la difesa o la riconquista dei territori) consentiranno di fare tacere le armi, le negoziazioni sotterranee — fra americani, russi e cinesi, fra ucraini e russi — daranno a quell’esito un contributo molto più importante delle conferenze stampa e di tutti gli altri atti pubblici e ampiamente pubblicizzati.

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