Archive for the ‘Cultura’ Category

Le nostre città ferite a morte

venerdì, Marzo 10th, 2023

di Walter Veltroni

Se chiudono scuole, cinema, teatri, librerie, edicole, negozi di giocattoli o di artigianato cosa resterà della possibilità di incontrarsi e vivere insieme in quartieri desertificati o fatti solo di ristoranti e farmacie?

Le nostre città ferite a morte
Illustrazione di Doriano Solinas

«Puoi riprendere il volo quando vuoi — mi dissero — ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude, che non comincia e non finisce, cambia solo il nome dell’aeroporto». Italo Calvino — quando uscì, nel 1972, «Le città invisibili» — aveva immaginato, temendola, l’omologazione del nostro vivere urbano, la progressiva assimilazione della esperienza umana nelle città, se non il loro stesso aspetto, a un modello unico.

La globalizzazione come corazza, come vernice che rende tutto uguale, che camuffa e piega le differenze che nascono dalla storia, che risiedono nella memoria, che ci rendono tutti diversi, meravigliosamente diversi, nello stesso tempo vissuto. Ma ora sta accadendo qualcosa di più terribile, di più temibile. Le città stanno scegliendo un colore solo. Ma è quello grigio delle saracinesche abbassate. Insegne luminose spente, vetri appannati, scatoloni accatastati.

Nel totale disinteresse di tutti, la Confcommercio ha segnalato che negli ultimi dieci anni hanno chiuso centomila negozi e sedicimila ambulanti hanno tirato su i banchi. Il fenomeno, dice il rapporto dell’Ufficio studi dell’associazione, riguarda in primo luogo i centri storici, specie del Centro Nord. Nel periodo esaminato è calato quasi del 20% il numero dei negozi per mille abitanti. In particolare, lo scrivo con dolore non credo solo personale, a tirare giù le serrande sono stati i locali che vendevano libri o giocattoli, meno 31%, e quelli di ferramenta e mobili. Crescono invece le farmacie, gli esercizi di telefonia e computer, i ristoranti. E nella statistica non vengono forse calcolate le edicole sradicate dall’asfalto, i cinema spenti, i teatri muti.

Che immagine ci restituiscono questi dati? La fotografia reale di un’Italia stanca e vecchia. Più farmacie e meno giocattoli, più cellulari e meno consumi culturali. Cosa serve ancora per capire che il nostro meraviglioso Paese rischia di essere consumato dai suoi vizi, primo tra tutti la rimozione di ogni visione d’insieme della sua evoluzione possibile?

So bene che una parte dei consumi dei beni che non si trovano più nei quartieri è assicurato altrove. Ma è un solo altrove, la casa. Si lavora da casa, ci si fa portare i libri, si vedono i film sul proprio televisore, si esce solo per mangiare o per comprare un caricatore per il cellulare. Tutto comodo, ma tutto in solitudine, in una nazione in cui esistono 8,5 nuclei familiari unipersonali. È il nuovo «Tutti a casa» che sta spogliando le città, riducendo le occasioni di socializzazione, di fruizione collettiva, di scambio.

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La Francia si arrabbia di nuovo

giovedì, Marzo 9th, 2023

di Aldo Cazzullo

Ieri si liberavano i prigionieri politici, oggi si scassano i bancomat; però sempre rivolta è. La riforma di Macron alla fine passerà. Il presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento; ma non esiste neppure una maggioranza contro di lui

La Francia si arrabbia di nuovo
«La Libertà che guida il popolo» di Eugène Delacroix

La Francia ritrova la sua maledizione: la riforma delle pensioni. «L’ossessione della tecnocrazia francese» secondo Jérôme Fenoglio, direttore del Monde. La tomba dei presidenti: François Mitterrand abbassò l’età pensionabile da 65 a 60 anni e si inimicò l’establishment, Jacques Chirac la innalzò e si inimicò il popolo; e ora pure Emmanuel Macron si sente poco bene. Il grande sciopero dell’altro ieri, con tre milioni e mezzo di lavoratori in piazza, è solo una battaglia di una lunga guerra. Macron ha già versato parecchia acqua nel suo vino. Ha posticipato la riforma il più possibile. Ha rinunciato a portare la soglia a 67 anni, accontentandosi di quota 64. Ha riconosciuto esenzioni per i lavori usuranti. Ma qualcosa dovrà pur portare a casa. Resta da capire perché sono proprio le pensioni, e non ad esempio i salari o il lavoro per i giovani, ad accendere la miccia della rivolta. Nel gennaio 1996 la riforma proposta da Chirac e dal suo primo ministro Alain Juppé, un cauto centrista, innescò la più grande ribellione di strada dai tempi del Maggio 1968. Dopo un mese senza treni né metrò, si rividero a Parigi i cortei dei «controrivoluzionari» che avevano sfilato per De Gaulle. Eppure quella volta gran parte dell’opinione pubblica simpatizzava per i dimostranti. Gli chéminots, i ferrovieri che andavano in pensione a 50 anni come se spalassero ancora carbone nelle locomotive dei romanzi di Zola, incarnarono la rabbia della maggioranza dei francesi.

Edgar Morin e Alain Touraine, che erano già allora i più importanti studiosi della società, spiegarono che si trattava della prima rivolta contro la globalizzazione. L’anno dopo Chirac perse clamorosamente le elezioni legislative.

La spiegazione è che nulla come le pensioni fotografa meglio il contrasto tra le élites e il popolo. Tra il vertice e la base della piramide. Tra i tecnici, che spiegano come dovrebbe funzionare il mondo, e l’uomo comune, che il mondo lo deve vivere com’è; e siccome la maggioranza degli uomini comuni fa lavori duri e malpagati, e accoglie la «retraite» come una liberazione, ogni tanto si indigna moltissimo. Non a caso oggi due terzi degli elettori appoggiano la protesta.

La società francese non avanza per riforme, ma per rivoluzioni. Non è pragmatica, è ideologica. E le strade di Parigi, inutilmente allargate dal prefetto Haussmann per rendere più difficile innalzare barricate, restano un mito politico. Anche se in questo inizio secolo non è più la Libertà a guidare il popolo, come nel meraviglioso quadro in cui Eugène Delacroix incarnò la Francia in una donna a seno nudo che impugna un fucile e un tricolore sulle barricate; ma spesso è la Reazione, impersonata dalla jacquerie dei Gilet gialli. Ieri si liberavano i prigionieri politici, oggi si scassano i bancomat; però sempre rivolta è.

La riforma delle pensioni di Macron alla fine passerà. Il presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento; ma non esiste neppure una maggioranza contro di lui. Quel che rimane della destra moderata potrebbe appoggiarlo; e in ogni caso la Francia è una Repubblica semipresidenziale, i meccanismi di protezione dell’esecutivo consentono di far passare una legge anche senza la maggioranza dei voti. Ma non è con queste forzature che si sciolgono i nodi politici, che si governa un grande Paese europeo.

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Lo sfogo di Spielberg: “L’antisemitismo è qui non se n’è mai andato”

domenica, Marzo 5th, 2023

Simona Siri

NEW YORK. «L’antisemitismo c’è sempre stato, che fosse dietro l’angolo o leggermente nascosto, è sempre stato in agguato. Nella Germania degli anni ’30 è stato palese. Oggi, l’antisemitismo non è più in agguato, ma è in piedi, orgoglioso con le mani sui fianchi come Hitler e Mussolini, che ci sfida a guardarlo in faccia». Sono le parole pronunciate dal regista Steven Spielberg a Stephen Colbert durante un’intervista registrata andata in onda giovedì sera durante il Late Night Show. L’occasione è l’avvicinarsi della notte degli Oscar, prevista per domenica 12 marzo: il nuovo film di Spielberg, The Fabelmans, è candidato a sette statuette tra cui quelle più importanti per miglior regista e miglior film. Considerato il suo lavoro più personale e autobiografico, il film racconta la vita della famiglia Fabelman/Spielberg, della separazione dei genitori dopo che viene alla luce la storia della madre con il miglior amico e socio del padre. Racconta anche la nascita della passione del giovane Steven (nel film Sammy) per il cinema e di come, arrivato in California negli anni ’60, sia stato vittima di bullismo, deriso e picchiato per il suo essere ebreo.

«The Fabelmans non è un film sull’essere ebrei tanto quanto è soffuso di ebraicità», ha scritto sul New York Times Jason Zinoman. «È una cosa che in questi termini non avevo mai sperimentato, soprattutto in America», ha continuato Spielberg da Colbert. «L’emarginazione di persone che non fanno parte di una sorta di razza maggioritaria è qualcosa che si è insinuato in noi per anni e anni. Di recente l’odio è diventato una sorta di appartenenza a un club che ha raccolto più membri di quanto avessi mai pensato fosse possibile in questo Paese. E odio e antisemitismo vanno di pari passo, non si può separare l’uno dall’altro». Nato in Ohio nel 1946, Spielberg ha vissuto con la sua famiglia in Arizona prima di arrivare in California. «Spesso eravamo l’unica famiglia ebrea del quartiere. Ero imbarazzato, impacciato. Sono sempre stato consapevole di distinguermi per la mia ebraicità. Al liceo, sono stato preso a schiaffi e a calci. Due nasi sanguinanti. È stato orribile», ha detto in passato. Un rapporto, quello con le sue origini, non sempre facile. Pur avendo membri della famiglia morti nell’Olocausto, Spielberg da giovane non è mai stato troppo interessato all’argomento. Decide di girare Schindler’s List solo nel ’93, a 46 anni, dopo aver rifiutato il film 10 anni prima, nel momento in cui decide di riavvicinarsi alla sua identità ebraica. «Quando sono nati i miei figli, ho fatto la scelta che volevo che crescessero come ebrei e che ricevessero un’istruzione ebraica», scrive nella sua biografia dove racconta anche il modo particolare in cui ha imparato i numeri: «Da un sopravvissuto di Auschwitz che usava il tatuaggio sul braccio per insegnarmeli. Si rimboccava le maniche e diceva: “Questo è un quattro, questo è un sette, questo è un due”. È stato il mio primo concetto di numeri. In modo strano, la mia vita è sempre tornata alle immagini che circondano l’Olocausto. Faceva parte della mia vita, era ciò che i miei genitori mi raccontavano a tavola. Abbiamo perso cugini, zie, zii».

Le sue parole oggi rispecchiano la preoccupazione di molti ebrei americani: i dati della Anti-Defamation League – l’organizzazione che dal ’79 monitora gli incidenti antisemiti – parlano di un aumento del 167% rispetto all’anno precedente per quanto riguarda molestie, atti vandalici e violenze dirette contro gli ebrei. Tra queste l’episodio più grave rimane l’attacco del 2018 alla sinagoga Tree of Life di Pittsburgh, dove un uomo armato uccise 11 fedeli ebrei, così come il famoso raduno «Unite the Right» a Charlottesville, in Virginia, due anni prima, dove i manifestanti estremisti cantavano «gli ebrei non ci sostituiranno». Altre opere recenti stanno provando a raccontare questo nuovo antisemitismo.

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“Cercasi assistente, anzi schiavo”: il Diavolo vive nel mondo dell’arte

giovedì, Marzo 2nd, 2023

Simona Siri

NEW YORK. Una lista di richieste da far sembrare Miranda Priestly del Diavolo veste Prada come una signora alla mano, dalle poche pretese. Un tono da «tutto ci è dovuto» tipico di una certa fetta di popolazione, il famoso un per cento degli straricchi. Il senso dell’offerta di lavoro comparsa sul sito della NYFA New York Foundation for the Arts e diventata virale grazie a Emily Colucci, fondatrice del sito Filthy Dreams, un sito web che analizza arte, cultura e politica. Una famiglia di «mostri dell’arte», l’ha definita, citando la frase di Jenny Offill usata da Zadie Smith per descrivere Lydia Tar, il personaggio interpretato da Cate Blanchett nel suo ultimo film. Colucci, che all’inizio pensava fosse un annuncio parodia, ha salvato il tutto su un file pdf e l’ha reso pubblico, tanto da suscitare l’interesse del New York Times che l’ha subito definito «il peggior lavoro del mondo». Il titolo è quello di «assistente personale», ma in realtà quello che questa «famiglia di alto profilo nel mondo dell’arte» sta cercando è un tuttofare dai poteri miracolosi, visto la quantità di responsabilità che gli (o le) spetterebbe: occuparsi di tutti gli aspetti dei viaggi della famiglia, dal fare i bagagli, al tenere in ordine i passaporti e prenotare voli alberghi e spostamenti; mantenere computer e altri sistemi IT; postare sui canali social della famiglia; badare al figlio di quattro anni quando la nanny è già andata via; recuperare abiti e altri acquisti «da negozi di alta gamma»; coordinare le visite degli ospiti; mettere in ordine gli armadi; prenotare le visite mediche; rispondere al telefono. Ma anche: stare a casa per aspettare la consegna dei pacchi; preparare presentazioni in Power Point per i progetti personali e lavorativi della famiglia; coordinare le donne delle pulizie, il giardiniere, le tate e tutto il resto della servitù; prenotare i ristoranti; occuparsi dei cani ma anche gestire i loro dog walker; scrivere biglietti di auguri e di ringraziamento; portare e ritirare la lavanderia; girare in macchina per Manhattan e Brooklyn a fare consegne. Esperienza di giardinaggio così come la conoscenza del mondo della moda e dell’arte sono considerati dei plus. Lo stipendio (doverosamente dichiarato secondo una nuova legge dello stato di New York) è tra i 65 mila e i 95 mila dollari all’anno a seconda dell’esperienza. Diventato virale, l’annuncio ha scatenato la caccia per capire chi sia questa pretenziosa famiglia.

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Foibe, botte, molestie, torture. Le violenze titine dopo la guerra

venerdì, Febbraio 10th, 2023

Fausto Biloslavo

Trieste. Mariti e padri scaraventati nelle foibe, pistolettate, botte, molestie sessuali, carcere, torture ed epurazioni nel nuovo paradiso socialista di Tito. Violenze e soprusi perpetrati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fino gli anni Cinquanta. E denunciati dalle vittime in 909 dichiarazioni giurate davanti ad un notaio a Trieste, dopo la fuga dell’esodo. Una documentazione eccezionale, in gran parte inedita, che fa parte dell’archivio del Cln dell’Istria, il Comitato di liberazione nazionale, composto da antifascisti e democratici, che assisteva i profughi e si opponeva al terrore titino. “C’era la volontà legale di mantenere una memoria certificata di soprusi, violenze, aggressioni subite dalla popolazione istriana dopo la guerra”, spiega Barbara Sabich, l’archivista che custodisce la preziosa documentazione presso l’Irci (Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata) di Trieste. “Non solo memoria storica, ma la volontà che diventi una prova legittima” spiega Sabich sfogliando con cura i fogli delle denunce battuti a macchina, che emergono dal passato per il giorno del ricordo della tragedia delle foibe e del dramma dell’esodo. Prove firmate di un processo che non si è mai tenuto ai crimini dei “liberatori” sul sangue dei vinti e di tanti italiani che non hanno nulla a che fare con il ventennio fascista, ma spesso vengono additati come “nemici del popolo”. Anzi, all’inizio restano nella Jugoslavia di Tito, come Emilia Smoliani, 23 anni, di Dignano che fugge a Trieste nel luglio del 1948. “Mio fratello Ferdinando di anni 17 al tempo dell’occupazione jugoslava dell’Istria si trovava a Pola e lì rimase quando subentrò l’amministrazione anglo americana” si legge nella dichiarazione giurata. Il fratello trova lavoro come inserviente nel corpo della polizia civile della Venezia Giulia sotto controllo alleato. Il 10 luglio 1947 torna a casa dai familiari nell’entroterra istriano. “Quella sera stessa la polizia jugoslava lo arrestò – denuncia la sorella – La mattina del 14 luglio venendo ad avvisarci a casa che mio fratello si era impiccato in carcere”.

“Quella sera stessa la polizia jugoslava lo arrestò – denuncia la sorella – La mattina del 14 luglio vennero ad avvisarci che si era impiccato in carcere”.

Emilia vede la salma “che recava grossi ematomi sulla fronte e aveva profonde ferite e lacerazioni sui polsi sino a lasciar vedere le ossa”. La sorella scoppia a piangere e ricorda che “il suo vicino di cella, Fratti Giovanni, ci confermò il giorno stesso del seppellimento di aver sentito urlare mio fratello mentre lo torturavano”. Per avere accusato i titini di omicidio, Emilia è ricercata e deve nascondersi nei boschi per poi fuggire a Trieste.

Foibe, eliminazioni, arresti a guerra finita

Carmela Del Ben, di Umago, ha perso il marito Libero Stossich prelevato dai partigiani di Tito il 28 aprile 1945 e accusato di essere un criminale fascista. “Era una calunnia perchè egli navigava e non si interessava di politica – racconta nella dichiarazione giurata – Più tardi la pubblica accusa per il distretto di Buie e di Capodistria dichiarava che probabilmente l’infossamento era dovuto ad un errore”. Carmela ricorda che “la salma di mio marito dopo sei mesi venne recuperata nel fondo di una piccola foiba sita nei pressi della sua abitazione assieme a quello di Cesare Grassi e Antonio da Zara”.

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Quei falsi miti della religione ambientalista

domenica, Gennaio 29th, 2023

Nicola Porro

Quello di Francesco Vecchi, Non dobbiamo salvare il Mondo(Piemme), è un libro davvero interessante. Premettiamo: non soddisfa tanti di noi che vorrebbero anche mettere in discussione le ragioni antropormofiche (è colpa dell’uomo) del cambiamento climatico. Ci definisce negazionisti. Ma non importa. Il libro è da leggere e da far leggere. Perché è un testo pragmatico e laico. Anche Vecchi ritiene che l’ambientalismo sia diventato una religione millenarista. «Il tentativo di contrapporre noi cattivi e dannosi esseri umani al povero pianeta messo a rischio serve solo a dare un indirizzo morale e religioso al problema. Invece la strada da intraprendere dev’essere quella razionale: qual è il modello di sviluppo economico che ci consente di avere le migliori relazioni possibili tra di noi (prosperità) e con l’ambiente (tutela)?». Il covid e le chiusure hanno dimostrato come la decrescita economica abbia inciso poco sulle emissioni di CO2 che sono scese solo di un misero 4 per cento.

Vecchi si pone delle domande retoriche e vi risponde con l’evidenza dei fatti e del buon senso. Si chiede: «Chi sostiene che possiamo vivere solo con il fotovoltaico, lo sa quanto consuma in un anno un paese come l’Italia? Chi dice che tre giorni di pioggia non sarebbero un problema, lo sa quanto tempo ci metterebbero a esaurirsi tutte le batterie presenti nel paese? Chi pensa che dobbiamo passare subito all’auto elettrica, lo sa almeno come viene prodotta in Italia l’energia elettrica? Chi combatte per il biologico, si è chiesto quanti pianeti ci vorrebbero per sfamare l’umanità con quel metodo? Chi ha combattuto contro l’estrazione di gas nel mar Adriatico, si è reso conto che il risultato pratico di quella battaglia è stato semplicemente quello di acquistare più gas dalla Russia, di renderci più dipendenti, di alzare le nostre bollette e di non ridurre di un grammo le emissioni di CO2 nell’aria? E chi ha votato contro il nucleare in Italia, lo sa che il 10% dell’energia consumata oggi viene da centrali nucleari finanziate da aziende italiane e poste in Francia sul nostro confine?».

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Statua di Ercole di età imperiale affiora nel parco dell’Appia Antica: la scoperta durante i lavori all’Ardeatino

venerdì, Gennaio 27th, 2023

di Paolo Boccacci

Statua di Ercole di età imperiale affiora nel parco dell'Appia Antica: la scoperta durante i lavori all'Ardeatino

“Oggi il Parco Scott ci ha regalato una grande sorpresa: una statua marmorea a grandezza naturale che, per la presenza della clava e della leontè, la pelle di leone che ne copre il capo, possiamo senz’altro identificare con un personaggio in veste di Ercole”.

Dopo il tesoro dell’antico tracciato del primo miglio dell’Appia Antica di fronte alle Terme di Caracalla, dalla terra spunta, come annuncia su Facebook il Parco dell’Appia, un’altra magia.

Scavando la collina di un’area verde dell’Ardeatino, ecco affiorare la grande statua in marmo, probabilmente di età imperiale, e forse di un imperatore, “dopo settimane di movimentazioni di terra di riporto completamente priva di reperti di interesse archeologico” in un cantiere avviato da Acea gruppo con Bacino sud srl da alcuni mesi per la bonifica del condotto fognario, molto vecchio, che era collassato in più punti, provocando anche l’apertura di pericolose voragini nel parco e smottamenti della collina.

E così si erano aperte vere e proprie ferite in una zona del parco che è stata subito transennata per iniziare i lavori e anche per tornare poi a riempire la collina e piantare un nuovo filare di alberi. Lo sbancamento, che ha raggiunto la quota di ben 20 metri sotto il livello del parco, è quindi stato seguito dall’archeologa Federica Acierno, sotto i cui occhi ad un tratto è apparsa la statua. In un’area, al secondo miglio dell’Appia Antica, vicina al Sepolcro di Priscilla.

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Liliana Segre: «Iniziai a testimoniare quando divenni nonna»

venerdì, Gennaio 27th, 2023

La senatrice a vita, superstite della Shoah, spiega la scelta di raccontare l’orrore dopo quarantacinque anni di silenzio

CorriereTv

«Quando un silenzio, per l’impossibilità di parlare di un argomento, dura quarantacinque anni, la testimone si domanda se le uscirà la voce, a chi interesseranno le sue parole…». Inizia così la videointervista di Liliana Segre che pubblichiamo qui sopra, nella quale la senatrice a vita, superstite della Shoah, racconta la sua scelta di testimoniare. Una decisione presa «quando divenni nonna, esperienza straordinaria per una che sarebbe dovuta morire». Ha parlato per trent’anni, Liliana Segre, in centinaia di scuole, davanti a migliaia di studenti, fino a quando a novant’anni il dolore di rivivere ogni volta la tragica esperienza di Auschwitz e la fatica fisica non l’hanno portata a smettere. L’ultima indimenticabile testimonianza l’ha resa il 9 ottobre 2020 nella Cittadella della Pace di Rondine, un luogo quanto mai simbolico dove, in uno Studentato internazionale, giovani provenienti da Paesi in conflitto convivono e costruiscono il dialogo.

Il filmato che pubblichiamo, online nel Giorno della Memoria, nasce da un dialogo con il regista Ruggero Gabbai ed è prodotto dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), cui la senatrice ha deciso di donare l’archivio della sua testimonianza nelle scuole. Appunti su carte sparse e block notes d’epoca, ma anche tantissime lettere ricevute da alunni e insegnanti, articoli di giornale, contenuti didattici. Dal 1992 a oggi. «Intorno agli ottant’anni — ha raccontato lo scorso giugno Liliana Segre al «Corriere» — pensai di buttare tutti quei materiali. Non volevo restassero ai miei figli, già coinvolti nei traumi di una mamma sopravvissuta. Però non l’ho fatto. E quando il Cdec mi ha chiesto se poteva occuparsene, ho detto di sì». Sono documenti «che fin dall’inizio custodii religiosamente perché erano lo specchio di una profonda scelta di vita fatta a sessant’anni, un mare che mi ha travolto, una spinta inarrestabile a rompere il silenzio».

«Nel corso del nostro lavoro — spiegano ora gli archivisti Francesco Lisanti e Rori Mancino — ci siamo trovati di fronte alla costruzione e alla continua rielaborazione del racconto dell’esperienza individuale di una testimone diretta e di quanti, accanto a lei, non sopravvissero. Un’esperienza condivisa con studenti di diverse fasce d’età e di diversi indirizzi scolastici che, spesso, hanno ripreso ciò che avevano ascoltato, rielaborando le parole di Liliana Segre in modo personale e inviando a lei il risultato».

Nel video la senatrice, che non è mai più tornata ad Auschwitz, dove fu deportata a tredici anni, racconta anche un episodio del 1995. «Nel cinquantenario della liberazione, ero in macchina con mio marito e abbiamo sentito una cronaca in diretta in cui venivano descritti la regina d’Olanda e altri che erano lì. Tutti in pelliccia. Siccome io lo so cos’è il freddo, ho detto: come ho fatto bene a non andare. Li avrei obbligati a spogliarsi e avere freddo, perché non si può andare in pelliccia ad Auschwitz. Se uno vuole visitare quel posto, deve avere freddo e anche un po’ fame».

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Fate presto: uscite dai social

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Concita De Gregorio

Non mi preoccuperò, nello scrivere queste righe, delle reazioni che scatenerà sui social domattina. Ce la posso fare, devo solo pensare alla vita di prima. Me lo ricordo, quando la libertà di dire non era mai in nessun momento attraversata dal pensiero: pensa che giornata mi aspetta domani. Era meglio, senza un filo di dubbio. Era sano lavorare senza la preoccupazione preventiva del sabba infernale che comunque, anche se ti sforzi di ignorarlo, non ignora te: entra dagli interstizi, si fa spiffero e poi tempesta, c’è sempre un amico che ti avvisa: sei in tendenza, hai visto? Tendenza. Che parola assurda, senza l’indicazione di un approdo. Verso cosa tende, esattamente, questa tendenza? Che trappola. La reputazione, la popolarità. E invece, pensa: prima contavano l’identità, l’autorevolezza.

La costruzione di una reputazione a uso del popolo del web là fuori (in verità là dentro: stanno tutti a casa loro) ha fagocitato l’identità. La popolarità e il consenso hanno preso il posto della competenza, della fatica che serve. Non importa chi sei, importa quello che fai credere di essere. Funziona così. Non penserai mica di sottrarti? Se esci sei fuori, fuori piove. Fa freddo. Nessuno ti vede, smetti di esistere. Esci dal mercato, non te lo ha spiegato il tuo agente? Ho vissuto cinquant’anni senza un’agente, rispondevo prima. Ma allora sei scema. E un assistente, un social media manager, un consulente per l’immagine? No, niente, ma siccome è una conversazione da binario morto non lo dico più.

Ora però. Mi pare di intravedere qualche piccolo, timido indizio di saturazione perciò ripeto qui la proposta che feci anni fa all’uomo più illuminato che abbia mai conosciuto il quale mi rispose, saggio: è presto. Forse tra poco sarà tardi, però. Allora, amici: usciamo dai social. Non esistono senza di noi. Si sono impadroniti delle nostre vite per il semplice motivo che gliele abbiamo consegnate. Vivono del nostro sangue che gli forniamo ogni giorno: una bella edificante foto su Instagram, un post che ci renda interessanti e certo migliori di quello che siamo, che nasconda per carità le nostre fragilità, le vite occulte, le nostre vere pulsioni e passioni. E invece: un pensierino, una provocazione, un ricordo accorato, una foto col morto del giorno che certifichi io c’ero, lo conoscevo. Guardate come sono giusto, opportuno, apprezzabile. Ma se non gli dessimo materia, ai mangiamorte, ci pensate? Non esisterebbero.

Lo so, ci sono milioni di persone che ci lavorano: per mancanza di alternativa, sovente. I social media manager, i costruttori di immagine del politico, della celebrità. Ma siamo sicuri che facciano un lavoro utile a loro e a noi, camuffando continuamente la vera natura delle persone? La disillusione, il sospetto, il complottismo che dilaga, il non ce la contate giusta non nascono anche dalla costante dissimulazione della verità come imperativo? La verità, insomma: sparita dietro la rappresentazione. Parli con il mio addetto stampa, con il mio manager, non è una bella risposta da sentirsi dare e neanche una bella frase da dire.

Le persone migliori che conosco non sono sui social. Senza offesa per chi ci campa e lo capisco: i mestieri di una volta non ci sono più, questo è il mondo come va, bisogna arrangiarsi e starci. Però ripeto: statisti, inventori, poeti, navigatori, gente che pensa e scrive e lavora a costruire mondi. Gente che accudisce persone. Gente che lavora tutto il giorno e che poi si dedica a chi ha intorno, fisicamente: che parla e guarda in faccia chi c’è. Non sono sui social. Non hanno il tempo per farlo, né l’interesse. Hanno da fare.

Che poi. Pensavo leggendo le cronache sul Grande Latitante. Hai vissuto trent’anni alla luce del sole, a casa tua. A parte le complicità che certo ci sono e ci sono sempre state, le massonerie, i piccoli politici locali che hai fatto votare e ti hanno protetto, le borghesie contigue con la mafia, le connivenze, va bene. Ma per non essere notati la cosa più semplice è sempre la stessa: non esibirsi, stare nei propri panni. È quando vuoi essere notato che hai bisogno di avere tribuna: un megafono social serve a questo. Quindi prendiamo nota: senza un profilo Facebook o quello che sia, TikTok la dannazione, puoi persino latitare per decenni. Potremmo noi, che non siamo Messina Denaro, vivere sereni la nostra vita di prima: fare cose che ci va di fare e di dire, o non farle, e tornare a essere chi siamo. Restare chi eravamo.

Il grande problema è il terrore di non essere all’altezza delle aspettative altrui. Familiari, professionali, sociali: se scoprono chi sono davvero son rovinato. Dissimulare, costruire vite da recitare, recitarle (i professionisti dello spettacolo sono, in questo, in effetti, avvantaggiati: possono mettere in scena vite domestiche come fossero un film d’autore). Ne parla Niccolò Ammanniti nel suo ultimo libro, La vita intima (Einaudi): nell’intervista che Annalisa Cuzzocrea gli ha fatto su La Stampa, dice cose semplici e mirabili. Intanto, appunto, niente social. Non c’è tempo, la vita è una ed è breve.

Ma poi: quanta energia, quanto tempo e lavoro quanta ansia ci costa sembrare diversi da quello che siamo. E perché. Per chi? Pensate ai ragazzi: alle loro vite tutte quante virtuali, ormai, al sesso imparato sui siti porno alle relazioni mediate dal giudizio del mondo intero, un mondo sconosciuto. Se parlo con qualcuno che ho di fronte so a chi parlo, se parlo con il web non so chi mi ascolta: e come faccio, se ho 12 anni, a piacere a chi mi ascolta senza sapere chi è? Posso solo fare come mi dicono di fare, imitare quelli già popolari. Essere uguale a qualcuno, rinunciare a essere chi sono. È una tragedia, per i ragazzi. Molto più che per noi. Ma è reversibile? Si può uscire dai social? Possono, gli adolescenti, tornare a parlarsi? Dipende anche da noi. Loro arrivano nel mondo che gli abbiamo apparecchiato. Possiamo sparecchiare.

C’è qualche timido segnale, dicevo. «Prospettive economiche più deboli per i colossi di Silicon Valley», leggo. Dopo Amazon, Facebook, Tesla (Twitter) ora tocca a Microsoft licenziare: diecimila dipendenti di troppo. Qualcosa si è rotto. Non sembrano averlo compreso i grandi gruppi editoriali che abbandonano la carta (e la qualità, e le competenze, e la storia delle persone e delle cose) per inseguire i clic, la pubblicità, un mercato vicino al punto di collasso. È una gara a perdere, alla lunga: economicamente, culturalmente. Piantare semi, si dovrebbe. Non raccogliere frutti di alberi esausti. «La verità è nelle mani, negli occhi e nel silenzio», scrive Christian Bobin, poeta. La paura di non piacere, l’ansia di nascondere le nostre debolezze ci ha portati al più fasullo dei mondi che pretende da noi ogni momento qualcosa di più: che ci consegniamo, come comparse.

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Niccolò Ammaniti: “La paura dice la verità”

martedì, Gennaio 17th, 2023

ANNALISA CUZZOCREA

Abbiamo forse troppa paura della nostra vita intima. Di come possa essere giudicata dagli altri, di come possa non corrispondere all’idea che sapientemente, di noi stessi, costruiamo. Nell’ultimo romanzo, il primo dopo otto anni, Niccolò Ammaniti ci mostra con pazienza da entomologo quello che siamo diventati: l’ossessione per l’immagine pubblica, la politica capace solo di inseguire il consenso veloce e fortuito, le decisioni prese in base a intuizioni di presunti guru tecnologici, la difficoltà di fare quel che fa sentire bene davvero, l’inclinazione al sospetto e alla paranoia.

Ne La vita intima, in uscita oggi per Einaudi Stile Libero, tutto questo è raccontato attraverso Maria Cristina Palma: la donna più bella del mondo, moglie del presidente del Consiglio italiano, ex modella, una vita costellata di dolori, ma non per questo esente dagli attacchi feroci dei social network e dalle critiche spietate di chi la circonda.

Anche in Anna c’era una protagonista femminile. Ma si trattava di una ragazzina e la trama apocalittica era completamente diversa da questa, del tutto contemporanea. Come mai ha scelto di calarsi, e immergere il lettore, nella testa di Maria Cristina Palma?
«Di solito quando scrivo in terza persona tendo a creare molti personaggi. Stavolta ho scelto una terza persona diversa, con la protagonista al centro. C’è solo un momento in cui il narratore descrive quel che pensa la sua assistente, una cosa come “chi me l’ha fatto fare”, ma è un attimo, quasi un errore dal punto di vista stilistico. L’idea era di stare sempre con lei e usare il presente, per storicizzare meno la storia. All’inizio ho fatto molta fatica, poi è andata».

La fatica non si vede. Sono 301 pagine che filano via come fossero 80. Non si percepiscono tentativi di impressionare il lettore, di dimostrare una tesi, di esibire le proprie capacità narrative. Emerge la storia.
«Dopo otto anni senza scrittura ho usato una tecnica che mi permettesse di rivolgermi a chi legge. Alla maniera dei libri dell’’800 o delle favole. Ho sentito il bisogno di riprendere il rapporto con i lettori, che avevo perso. E poi ho messo più riflessioni personali: che vanno da Darwin all’etologia fino ai processi che riguardano la memoria. Nella fase del racconto però sono stato il più vicino possibile a Maria Cristina, ho usato una sorta di terza persona mimetica: un lavoro più complesso del solito non a livello di scrittura, ma a livello psicologico. E alla fine sono soddisfatto».

Ma perché un personaggio così distante da lei?
«Non sono uno che scrive un libro all’anno, scrivo quando mi va. Quindi penso che ogni libro debba essere un passo in avanti. L’ultima volta avevo scrutato l’animo di una ragazzina in un mondo post-apocalittico, questa volta ho pensato a una donna matura. Volevo vedere cosa succedeva mettendosi in quei panni e capire se sarei riuscito a renderla credibile».

Una sfida.
«Resa più difficile dal fatto che ho scelto una donna particolare, che non ha certo le credenziali per essere la più simpatica del mondo. Bellissima, ricca, all’apparenza ha tutto: una vita spenta, ma assolutamente privilegiata. Ho sempre pensato che le donne così diventino donne immagine, trofei per gli uomini che le conquistano. Come le mogli dei calciatori, come la moglie di Trump. Scelgono di essere la compagna dell’uomo potente e vengono classificate in un certo modo, senza che nessuno abbia voglia di scavare».

Il New Yorker ha pubblicato un lungo articolo sull’abuso del trauma-plot nella letteratura contemporanea. Ho pensato, magari vale anche per quest’ultimo di Ammaniti. Poi ho letto e ho capito che per quanto avvenimenti luttuosi siano presenti nella vita d Maria Cristina, per quanto sia uno choc scoprire che esiste un video porno di lei a venti a anni, l’unico vero trauma della sua vita è la bellezza.
«C’è una scena in cui la sottosegretaria-rivale dice a Maria Cristina mentre guardano l’Opera: “Io penso che una bellezza come la tua metta soggezione. C’è qualcosa di assoluto che ti sovrasta e quando uno ti sta vicino fa fatica a essere sé stesso. Tu non sei sullo stesso piano del resto dell’umanità”».

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