Il governo sia autonomo sulle riforme

Stefano Lepri

Il problema più grosso del Recovery Plan che Mario Draghi illustrerà alle Camere lunedì prossimo non è che i partiti (ancora da consultare tutti) non concordano su che cosa metterci. Piuttosto, è che alcune sue componenti essenziali a nessun partito piacciono. Non mancheranno i soldi per fare spese utili, che daranno lavoro a molte persone. Ma non basta soltanto scegliere gli investimenti migliori, senza farsi deviare da ciò che questo o quel partito usa come bandiera, o che le amministrazioni regionali cercano per aumentare il proprio consenso.

Senza affrontare i problemi che inceppano il nostro Paese da almeno un quarto di secolo, l’effetto dei grandi nuovi investimenti si esaurirebbe presto. L’occasione è grande, l’occasione è unica, ma è anche molto difficile da cogliere. Siamo l’unico Paese avanzato dove i giovani di oggi non godono di un benessere maggiore rispetto ai loro genitori un quarto di secolo fa. In anni di alternanza politica, di cambi frequenti di maggioranze, abbiamo sperimentato rimedi molto diversi, nessuno dei quali ha funzionato appieno. Per questo si parla di riforme. È un termine logoro, che ha cambiato molte volte di contenuto nel corso degli anni. Non suscita entusiasmo in molti cittadini. Occorre ridefinirlo: ciò che concretamente serve perché l’Italia funzioni meglio; perché sia insieme più efficiente e più equa.

Che la burocrazia sia lenta non conviene a nessuno; occorre sormontare privilegi, ambizioni, paure, l’intreccio dei quali produce il non saper fare o il rinviare le decisioni. Nessun partito ha avuto il coraggio di prendere di petto i superburocrati, o i sindacati, o la giustizia amministrativa.

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