Governo Draghi, il colpo d’ala che serviva

marcello sorgi

Per chi accusava il governo Draghi di essere un Conte ter travestito, ma anche per chi semplicemente invocava un gesto di discontinuità significativo, la repentina sostituzione del commissario straordinario per l’emergenza Covid Arcuri con il generale Figliuolo, chiamato allo stesso incarico, è senz’altro una risposta chiara. Arcuri, giunto ormai a fine mandato e congedato con i ringraziamenti di rito, era stato l’uomo-simbolo dell’esecutivo guidato dall’«avvocato del popolo». Tal che a un certo punto sembrava che l’ex-premier ora in corsa per la guida dei 5 stelle non potesse far nulla senza consultarlo.

Al dunque, forse è proprio questo che ha nociuto all’ex-commissario: l’aver assunto, anche al di là delle sue intenzioni, un ruolo politico o semi-politico improprio che non gli spettava ed era apertamente contestato (Renzi, Salvini), insieme alle numerose e parallele responsabilità che gli avevano alienato il sostegno di chi pure lo aveva stimato in passato.

E tuttavia che Draghi, al di là delle scadenze, abbia deciso l’avvicendamento per dare in pasto la testa di Arcuri ai critici della prima ora, non è affatto detto. Bisognerebbe conoscere un po’ meglio il temperamento del presidente del Consiglio prima di pensare che possa farsi prendere dall’ansia della comunicazione che aveva contraddistinto dal primo all’ultimo giorno il suo predecessore. L’approccio di Draghi rispetto ai compiti che ha assolto, infatti è sempre stato graduale. Pronto a intervenire nelle situazioni d’emergenza, come ai tempi dello storico «whatever it takes», senza il quale la tenuta dell’euro sarebbe stata seriamente messa a rischio. Ma abituato a dispiegare le sue strategie con il tempo necessario, sapendo che la realizzazione degli obiettivi quasi mai è il risultato di una scommessa, come alla roulette, e più spesso, invece, di un’attenta progettazione e di un confronto con collaboratori e interlocutori qualificati. A ben guardare è esattamente quel che sta accadendo. Il primo passo è stato il disegno, all’interno di un governo che resta politico («Siamo semplicemente il governo del Paese», ha detto Draghi nel discorso alle Camere), di un perimetro che parte da Palazzo Chigi, dove è approdato Garofoli, vittima di un’epurazione ai tempi dell’alleanza gialloverde, e arriva al ministero dell’Economia affidato a Franco, anche lui fatto fuori nello stesso periodo. Poi, nei giorni delle critiche, peraltro motivate, sulla composizione, tutt’altro che «di alto profilo», della lista dei sottosegretari – i quali, per inciso, ieri hanno giurato nelle sue mani, entrando nel vivo delle loro funzioni – Draghi ha sperato che ci fosse un po’ d’attenzione, che non sempre c’è stata, per la scelta di assegnare all’ormai ex capo della polizia Gabrielli la delega sui servizi segreti.

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