Un anno dopo la nostra vita così cambiata

di MICHELE BRAMBILLA

Siamo all’anniversario. È un anno dal giorno in cui a Codogno una dottoressa capì che un suo paziente – giovane e forte, eppure così malmesso da rischiar la pelle – aveva contratto proprio quel virus di cui da qualche settimana sentivamo parlare, e che ci pareva tuttavia una cosa lontana, che non avrebbe cambiato più tanto, forse anzi per nulla, la nostra vita. Il Coronavirus? Roba che riguarda i cinesi, si diceva. Un po’ come tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940, quando l’Europa bruciava ma in Italia prevaleva l’ottimismo: “Dalla guerra staremo fuori”, assicuravano quelli che la sapevano lunga.

Ancora nei giorni successivi, non ci volevamo credere. Le strade e le piazze erano piene, la movida non conosceva soste, al ristorante non si trovava un buco. Gli esperti – gli stessi che ora invocano un nuovo lockdown – rassicuravano: è poco più di una brutta influenza. D’altra parte l’Organizzazione mondiale della sanità ancora a fine gennaio aveva certificato: il virus non si trasmette da uomo a uomo. Poi, una domenica di marzo, alle due di notte, scoprimmo un acronimo: dpcm. Ci veniva chiesto di chiuderci tutti in casa, e ci sentimmo soldati in difesa della Patria. I balconi al posto delle trincee.

Per centomila italiani non è andato tutto bene. Anche i buoni propositi sono stati seppelliti dal cinismo. Abbiamo sentito in questi giorni telefonate in cui ci si augurava un aumento dei contagi per vendere qualche mascherina in più. Quanto alla solidarietà che ci avrebbe contagiato più del coronavirus, siamo qui oggi a vedere che anche nella corsa ai vaccini ciascuno pensa soprattutto alla propria bottega. E noi che ci illudevamo che chi avrebbe scoperto per primo la formula magica l’avrebbe regalata alle industrie concorrenti, pur di salvare il mondo.

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