Pasta, latte e vino si comprano sfusi come nell’Italia degli anni Sessanta

roberto giovannini

ROMA. E’ stato il boom economico degli anni ’60 a decretare la graduale fine della vendita dei prodotti sfusi nel nostro paese. La nascita dei primi supermercati all’«americana» e le popolarissime réclame di Carosello fecero scoprire agli italiani la fascinazione dei prodotti di marca, la magia dei lunghi banconi carichi di scatole di cartone e flaconi di plastica. Ma per molti anni nel Belpaese tutto (dalla frutta all’olio, al vino e alle sigarette) si vendeva sfuso: niente plastica o cellophane, ma cartocci confezionati dai negozianti con carta paglia, carta pane, carta oleata, carta da zucchero. Per i liquidi, come vino ed olio, ci pensavano i clienti a portarsi le bottiglie da casa. E dai grandi sacconi di tela o juta sgorgavano legumi e grani. Poi, la Rivoluzione del commercio, l’infatuazione per le Grandi Marche (che comunque facevano pagare ai consumatori il costo del packaging e della pubblicità), la «igienizzazione» dello smercio dei prodotti alimentari hanno cambiato tutto. Fino ad oggi: complice la crescente attenzione di cittadini e famiglie per l’ambiente, ma soprattutto per il devastante costo economico ed ambientale del packaging (a cominciare dalla ormai tenutissima plastica) la tendenza si è invertita. E lo «sfuso» sta gradualmente riconquistando spazi, trovando consumatori sempre più interessati e molte catene commerciali pronte a rispondere alla domanda di prodotti sfusi, che consentono agli acquirenti di comprare quantità «libere» e risparmiando sul costo del confezionamento.

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