Non se ne parla più, ma l’Amazzonia brucia ancora

Si chiamano queimadas, e sono i fuochi usati da agricoltori e allevatori per bruciare la vegetazione e ricavare nuovi terreni per campi e pascoli, e sono la causa principale della deforestazione in Amazzonia.

Stando però a quanto dichiarato dai ricercatori della Yale School of Forestry and Environmental Studies la causa principale sarebbe proprio la produzione di carne, circa l’80% degli incendi che devastano l’Amazzonia verrebbero appiccati dagli allevatori per rigenerare il terreno, e far posto ai pascoli. Il Brasile è infatti il secondo paese al mondo per produzione di carne bovina. Per questo Greenpeace ha chiesto all’Ue “una normativa in grado di garantire che i prodotti immessi sul mercato europeo non siano collegati alla deforestazione, al degrado delle foreste o alle violazioni dei diritti umani, e di assicurare che il settore finanziario non sostenga questa devastazione: oggi non è così».

Perché l’aumento degli incendi rappresenta un vero e proprio record dal 2013. Secondo i dati diffusi dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (INPE) che osserva l’evoluzione della foresta in Brasile, utilizzando dati satellitari attualizzati in tempo reale, più della metà (52,5%) di questi incendi, hanno avuto luogo in Amazzonia, dove il loro numero è raddoppiato, distruggendo miliardi di chilometri quadrati della più grande foresta primaria del globo e scatenando una vera e propria mobilitazione internazionale. L’hashtag #prayforamazonia ha presentato gli incendi delle ultime settimane, come un evento in grado di suscitare un’empatia e una preoccupazione a livello mondiale, e ha avuto il merito di attirare l’attenzione del mondo intero sulla dimensione politica di questo gigantesco dramma ambientale. Compresa quella dei grandi del pianeta.

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Gli incendi in Amazzonia sono arrivati fino al G7, il summit che riunisce le più grandi economie del mondo, che si è svolto dal 24 al 26 agosto a Biarritz, in Francia. In quest’occasione, i sette paesi hanno proposto un aiuto di 20 milioni di euro per assistere il Brasile nella lotta contro gli incendi, ma il presidente Jair Bolsonaro, ha rifiutato la proposta, e ha deciso, sotto la pressione internazionale, di inviare 44 mila soldati per gestire l’emergenza.

Del resto, la politica di Jair Bolsonaro, eletto nell’ottobre 2018, non è estranea a quanto accaduto questa estate a questo ecosistema che si rivela giorno dopo giorno più fragile di quanto sembri. L’idea di Bolsonaro è di passare da una politica di preservazione della foresta ad una politica di sfruttamento, per questo è intenzionato ad aprire queste terre all’agricoltura, alla silvicoltura e alle miniere e la tecnica più usata per raggiungere rapidamente questo obiettivo è quella degli incendi boschivi.

Secondo un articolo apparso il 26 agosto sulla rivista Science, la deforestazione è chiaramente all’origine di questi incendi. Il numero dei fuochi rilevati dai satelliti dell’INPE e dalla NASA è il più elevato dal 2010, anno in cui El Nino portò una forte siccità. Quest’anno la stagione non è stata particolarmente secca, tuttavia secondo l’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia (IPAM), le dieci municipalità più colpite sono quelle che hanno registrato il più alto tasso di deforestazione: dapprima gli alberi vengono abbattuti, in seguito il resto della vegetazione viene bruciato per far posto a pascoli, o colture.

Ma perché se l’Amazzonia brucia è anche un nostro problema? Perché la deforestazione ha numerose conseguenze concrete che oltrepassano i confini dell’ambiente brasiliano.

La prima conseguenza è ovviamente il rilascio in atmosfera di una grande quantità di anidride carbonica (CO2), il principale gas serra che contribuisce al riscaldamento del clima terrestre. Perché la combustione della biomassa emette naturalmente CO2, ma anche perché la morte degli alberi libera tutto il carbonio sequestrato per decenni. È ancora troppo presto per conoscere quanta CO2 verrà emessa dagli attuali eventi nella regione amazzonica, ma le quantità rilasciate da incendi come questi non sono sicuramente trascurabili.

Uno studio pubblicato nel 2002 sulla rivista Nature ha dimostrato che gli incendi del Borneo, in Indonesia, nel 1997, hanno rilasciato tra gli 810 milioni e i 2,57 miliardi di tonnellate (Gt) di carbonio, che hanno contribuito al più grande aumento della concentrazione atmosferica di CO2. Nel 1997, gli incendi boschivi del Borneo hanno rappresentato fino al 10% delle emissioni globali.

Oggi si stima che poco più del 19% della foresta sia stata distrutta dal 1970.

La distruzione delle foreste, soprattutto di foreste primarie come l’Amazzonia, la più grande e ricca di biodiversità del pianeta, è dunque una minaccia per tutta l’umanità, un vero e proprio “game over” per la lotta ai cambiamenti climatici. Comunemente definita un polmone verde, questa foresta è un “carbon sink”, ovvero un deposito di Co2 con la caratteristica di assorbire più anidride carbonica di quella che produce, svolgendo quindi un ruolo fondamentale per combattere il riscaldamento globale.

Un’altra conseguenza diretta della distruzione della foresta amazzonica è la perdita dell’eccezionale biodiversità che ospita. In questo ecosistema, che rappresenta solamente l’1% della superficie terrestre, si trovano il 10% delle specie conosciute. Secondo il WWF, sarebbero circa 40.000 le varietà di piante, 2,5 milioni le specie di insetti, 427 specie di mammiferi, 1.293 specie di uccelli, 378 specie di rettili, 427 specie di anfibi e 3000 specie di pesci, molte delle quali endemiche, cioè specifiche di questa regione. Questa straordinaria biodiversità rappresenta anche la ricchezza per centinaia di popolazioni indigene, circa 420 tribù, che vivono da molto tempo nel bacino amazzonico e la cui cultura e persino sopravvivenza, è indissolubilmente legata al destino della foresta e delle sue risorse.

LA STAMPA

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