Al dunque, la paura

Questo il quadro. Ed è piuttosto indicativo che, racconta qualche frequentatore del Colle, nemmeno lassù hanno certezze su cosa potrà accadere e se, e quante volte, finché Conte non pronuncerà il suo discorso, i due cambieranno ancora idea. C’è però un punto fermo, in questa storia. E lo ha capito bene Gianni Letta, che oggi ha avuto più di un colloquio informale, come sempre accade in questi casi, con qualche consigliere quirinalizio. Il plenipotenziario della diplomazia berlusconiana ha avvertito la netta sensazione che il capo dello Stato non ha alcuna intenzione di trasformarsi in un regista per dar vita a un governo istituzionale – sensazione che gli ha procurato un certo dispiacere – e si limiterà a registrare le posizioni in campo, con una certa fermezza anche nei tempi. Detta in modo un po’ tranchant: se c’è una maggioranza, ci sarà un governo, altrimenti si predisporrà a sciogliere le Camere.

Ma c’è un altro elemento che trapela. E che rivela la consapevolezza di una situazione istituzionalmente irregolare e fin troppo destabilizzante per il paese. Questa volta non si assisterà a un bis del 2018, con i partiti che, in attesa di capire in quale forno cucinare il pane, tengono paralizzate le istituzioni repubblicane, spostando la sceneggiata che abbiamo visto fin qui sul set delle consultazioni, e ingabbiando il Quirinale con l’insostenibile leggerezza con cui hanno ingabbiato il paese in queste settimane, nell’ambito di una crisi che, formalmente, non è ancora aperta, ma che quotidianamente ha bruciato scenari e suggestioni.   

Il principio di realtà, dicevamo. Alla vigilia del suo discorso, il premier ha scoperto che, una volta lasciato palazzo Chigi, non solo è complicato tornarci, ma non è neanche scontata una onorevole “way out” nel posto di commissario europeo, soprattutto nel caso di un cambio di maggioranza col Pd. E, in queste ore, un’altra scoperta ha raffreddato il baldanzoso entusiasmo del “facciamo il governo col Pd”, quel “fattore Renzi”, allegramente sottovalutato, ma rumorosamente riapparso sulla scena a ogni dichiarazione di Matteo Salvini, piuttosto bravo ad aver individuato il fusibile del sistema. Che, non a caso, evoca la parola “Renzi”, “Boschi”, “Etruria” a ogni dichiarazione.

Non ci voleva chissà quale raffinato analista a capire che, di un governo col Pd, il senatore di Rignano avrebbe la golden share politica e parlamentare. In fondo lo ha dichiarato in una intervista in cui ha annunciato che avrebbe tirato le somme della nuova esperienza tra qualche mese alla Leopolda. E non ci voleva un genio per prevedere che la discussione inevitabilmente avrebbe virato sulla sua presenza o su quella della Boschi nel nuovo governo. Ecco perché al Nazareno si registra, sull’ipotesi di un governo con i Cinque Stelle, un’aria da “indietro tutta” e anche i più governisti hanno riposto nell’armadio il vestito buono per il giuramento.   

Diciamoci la verità, l’unico che in questo spettacolo a metà tra la tragedia (per il paese) e la commedia dell’arte non si è “bruciato” nel gorgo dell’incoerenza e nell’ebbrezza da palcoscenico è Nicola Zingaretti, per la semplice ragione che ha rispettato la prima regola della politica e della logica. E cioè che la crisi è tale quando si manifesta formalmente, come il rigore nella celebre frase di Boskov che “c’è quando arbitro fischia”. E solo a quel punto un partito serio si riunisce, discute e avanza la sua proposta, senza partecipare al teatrino di avanzare “governi virtuali” su una “crisi virtuale”. Ecco, è l’unica posizione chiara: “Governo di discontinuità, o voto”. In attesa che si sciolgano le contraddizioni e le convulsioni in seno all’avversario. Almeno così non si perde la faccia. Di questi tempi, è una notizia.

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