I Cinque Stelle travestiti da sinistra

Per reagire a questo stato di cose, circa un mese fa Luigi Di Maio ha riaperto i giochi presentandosi, in evidente competizione con la sinistra, come il punto di riferimento del contrasto all’ascesa salviniana. Chi vuole impedire che il Carroccio «si prenda tutto» — è stato il suo messaggio ben decodificabile — non può che votare per noi; pronunciarsi invece per i partiti dell’opposizione – ha comunicato poi in maniera pressoché esplicita — sarebbe un atto di mera testimonianza. Ma non bastava enunciare questi principi, occorreva metterli in atto. E Di Maio lo ha fatto. Come?

Prendiamo l’ultimo episodio: il tweet della ministra della Difesa Elisabetta Trenta che lodava la Marina per il salvataggio di alcuni pescherecci italiani aggrediti dalle motovedette libiche. L’episodio a cui si riferiva la Trenta è ancora controverso; ma quel tweet sarebbe rimasto inosservato se, sentendosi stuzzicato, Salvini non fosse immediatamente partito all’attacco della ministra accusandola di fare propaganda (per poi ricevere dai Cinque Stelle rimbrotti dello stesso tenore). È evidente che per le vie subliminali si sta parlando della inaffidabilità di quelle imbarcazioni militari libiche alle quali in altre occasioni Salvini avrebbe voluto affidare parte della soluzione del problema dei migranti.

E, visto che siamo in tema di migranti, è opportuno ricordare che uno dei problemi più impegnativi per la campagna elettorale di Di Maio si annunciava essere quello di doversi giustificare per il sostegno parlamentare a Salvini che intendeva sottrarsi al processo per il «caso Diciotti». Un mese fa sembrava che nella campagna per le Europee si sarebbe parlato prevalentemente di questo episodio talché il Pd avrebbe potuto concentrare le proprie ostilità ad un tempo contro Salvini e Di Maio, additandoli, entrambi, come nemici di un regolare dibattimento giudiziario. Invece Di Maio è riuscito a sfilarsi e il «caso Siri» ha monopolizzato le attenzioni togliendo alla sinistra buona parte degli argomenti antigrillini in materia di giustizia. Armando Siri ha offerto a Di Maio un’opportunità strepitosa: sotto il profilo politico la storia che lo riguarda non concerne se non marginalmente la questione dei trentamila euro che dovrà essere chiarita per via giudiziaria; il «caso Siri» consiste nel fatto che un governo dell’Europa occidentale non può annoverare tra i propri membri una persona che sia sospettata di essere in «contatto» ( ancorché in maniera indiretta e, ci auguriamo, non consapevole) con Matteo Messina Denaro. Anche se si dimostrasse che quei trentamila euro Siri non li ha mai ricevuti, anzi che non gli sono stati mai neppure promessi — il che, a nostro avviso, è oltremodo probabile — i termini di quel «contatto» (ripetiamo: indiretto e forse inconsapevole) vanno chiariti nei tempi necessari per questo genere di approfondimento. Salvini non può non essersi reso conto di ciò ed è per questo che entro la settimana che inizia oggi si vedrà obbligato a lasciare l’incauto Siri al suo destino.

Questa sarà una vittoria per Di Maio che (assieme a Conte) ha messo immediatamente a fuoco il problema con modalità tali da ricevere — in un convegno di «MicroMega» a cui era presente il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede — il pubblico elogio del magistrato Nino Di Matteo, al giorno d’oggi l’ esponente più noto del cosiddetto partito delle toghe. Nelle stesse ore il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho accusava quasi esplicitamente Salvini di non aver fin qui adottato il «modello Caserta», cioè di non essersi presentato una volta al mese nella città campana al fine di «rimodulare» le attività di contrasto alla camorra, come fecero — ha sottolineato Cafiero De Raho —
i suoi predecessori. Così, a sorpresa, pur a ridosso del «caso Diciotti», è rispuntato il feeling tra i Cinque Stelle e la parte più battagliera della magistratura. Feeling che — insegna la storia degli ultimi venticinque anni — al momento opportuno torna sempre utile alla parte politica che ne beneficia

Ma il capolavoro di Di Maio è stato, nei giorni attorno al 25 aprile, quello di riuscire a presentarsi come leader di un partito di governo che si richiama ai valori della Resistenza. Non deve essere stato facile per lui, nato e cresciuto in ambianti missini, dare una così convinta prova di sensibilità nei confronti dei valori dell’antifascismo. Se non fossimo persuasi che tale sensibilità sia frutto di un’effettiva maturazione, potremmo pensare che essa sia stata solo l’ennesima occasione (colta al volo) per mettere all’angolo Salvini indaffarato con CasaPound. Un’occasione utile oltretutto a trovare qualche sintonia con i possibili interlocutori di domani o dopodomani, vale a dire il Pd. Ma poi è accaduto che quando un importante esponente del Pd, Graziano Del Rio, ha teso loro un po’ goffamente la mano, Di Maio ed i suoi hanno respinto l’offerta financo con parole scortesi. Segno che i pentastellati non avevano, quantomeno nell’immediato, un secondo fine.

Chi sembra aver capito il senso complessivo di questa complessa manovra politica è il nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti che negli ultimi giorni ha aggiunto alla parte antisalviniana della propria campagna elettorale, robuste denunce antigrilline. Zingaretti sa che una delle principali partite delle prossime elezioni europee si gioca sul risultato dei Cinque Stelle in rapporto a quello del Pd. Se i democratici cresceranno fino a scavalcare i seguaci di Di Maio, per loro sarà una indispensabile boccata d’aria e — cosa più importante — il partito fondato da Grillo entrerà in crisi sicché in prospettiva tornerà ad essere un bacino in cui il Pd potrà andare a ripescare i propri voti. Se questo non accadrà, il M5S potrà, ancorché ammaccato, riprendere la propria strada in compagnia della Lega. Felice per essersi salvato poco prima del tracollo, travestito in extremis da partito d’opposizione.

CORRIERE.IT

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