I cattolici e la classe dirigente

di Angelo Panebianco

Accade talvolta che una discussione pubblica sia molto più interessante per ciò che essa sottintende, per ciò che vi si scorge sottotraccia, che non per gli argomenti usati dai partecipanti. Tale è forse il dibattito che (nel centenario dell’«Appello al Paese» di Luigi Sturzo, il padre del popolarismo) sta animando alcuni settori della Chiesa e ambienti ad essa collegati. Esprime il desiderio o la speranza (non ancora un progetto) di vedere rinascere, qui in Italia, un partito dei cattolici. Se ne comprendono le ragioni. Da un lato, una generale insoddisfazione, che accomuna molti cattolici (ma non solo loro) , per la qualità della classe politica italiana nelle sue varie componenti. Dall’altro lato, il fatto che in Italia viga di nuovo il metodo elettorale proporzionale: nella lunga età dell’oro del (secondo) partito cattolico – la Democrazia cristiana – c’era, per l’appunto, la proporzionale. Perché non cogliere l’occasione? Sia detto col massimo rispetto possibile: la discussione mi pare poco sensata. La politica dell’identità cattolica è fuori tempo massimo. Non si tiene conto della secolarizzazione: come è possibile ipotizzare che a chiese poco frequentate e a seminari vuoti possano corrispondere urne elettorali traboccanti di voti cattolici? Davvero avrebbe senso dare vita a un partito dei cattolici del 4, del 5 o persino dell’8 per cento? Non sarebbe un modo, abbastanza autolesionista, di fare «pesare» ufficialmente, pubblicamente, la propria (ormai scarsa) forza politica? Si tenga per giunta conto del fatto che il tramonto della politica dell’identità cattolica qualche vantaggio ai cattolici lo ha comunque dato. Oggi un leader politico capace può attirare il consenso di cattolici e di non cattolici indifferentemente. Solo la sua qualità e le sue proposte contano. Il fatto che, eventualmente, egli sia un cattolico, di sicuro non impedirà a elettori non credenti di apprezzarlo e di sostenerlo.

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