“Nessuno dovrebbe utilizzare Facebook”: parla Dave Eggers, scrittore e pioniere del digitale

Poi nel 2013 un altro grande successo con “Il Cerchio”, il racconto distopico di un mondo in cui sono i social network a farla da padrone e l’individuo ha rinunciato a ogni tipo di riservatezza. Il libro ha reso Eggers una delle principali voci critiche sul futuro verso cui ci sta portando l’utilizzo «pigro e acritico» della tecnologia. Un futuro che immagina fatto di controllo reciproco, passività, repulsione per la politica, e in cui – come ha fatto dire ai suoi personaggi – «la privacy è un furto».

Ogni giorno smartphone, social network e App immagazzinano informazioni sulle nostre attività, passioni, gusti. Le nostre tracce digitali sono utilizzate per pubblicità e campagne politiche sempre più invasive. La tecnologia ci conosce ormai meglio di noi stessi.

«Penso che l’ascesa di un capitalismo della sorveglianza sia estremamente pericolosa e porta con sé il rischio dell’eliminazione della maggior parte delle nostre reali libertà individuali, se non addirittura tutte. Negli ultimi mesi è emerso più volte come Facebook abbia consentito ad altre società di violare la privacy dei propri utenti. È scandaloso, ma è solo una dimostrazione di come molte delle compagnie tecnologiche non abbiano assolutamente rispetto per la riservatezza di chi le utilizza. Non è minimamente tra i loro pensieri. Pertanto noi, come consumatori, dobbiamo essere più astuti nei confronti delle compagnie di cui abitualmente siamo clienti. Facebook, per esempio, è una società tanto disonesta quanto estremamente pericolosa. Ci sono molte alternative e gli utenti dovrebbero migrare su queste nuove piattaforme che rispettano veramente i diritti della persona».

vedi anche: Maria Ressa: la mia guerra per la verità contro le menzogne su Facebook «I social sono usati dal potere per creare odio e ottenere consenso. Il giornalismo deve rispondere con coerenza, trasparenza e responsabilità». La testimonianza della giornalista filippina scelta da Time Non sempre si leggono i termini e le condizioni di utilizzo di una App o di un social network. In questo modo i nostri spostamenti possono essere tracciati, i software hanno accesso ai microfoni e alle fotocamere dei dispositivi, i dati sono utilizzati per fini commerciali. Perché le persone danno via la loro privacy per così poco?
«Penso che abbiamo barattato la privacy per la comodità e per il piacere di ottenere servizi gratis. Le compagnie ci tracciano, ma bisogna considerare che anche noi siamo a nostro modo spie: controlliamo i nostri bambini, gli amici, i compagni. gli impiegati. Dobbiamo considerare le implicazioni di questi atteggiamenti e provare a ritornare a quando il controllo reciproco e di massa non era considerato giusto. Ogni tipo di sorveglianza ha gravi conseguenze ed è contrario all’essenza della libertà».

I governi dovrebbero adottare una legislazione più stringente sulla privacy e sull’utilizzo dei dati da parte delle compagnie tecnologiche?
«Non sono solo i governi ad avere il potere di tenere a freno questa deriva, ma ne hanno anche le persone, gli utenti. E il loro potere è ancora più importante. Nessuno dovrebbe utilizzare Facebook. Nessuna legge richiede a una persona di cedere tutti i propri dati a una società senza etica. Se i consumatori e gli utenti voltassero le spalle alle compagnie peggiori, queste si renderebbero conto che non avrebbero alcuna alternativa: o cambiano, o muoiono. E noi abbiamo il potere di cambiare tutto questo. Dovremmo solo metterlo in pratica».

Le innovazioni e il loro sviluppo sono più rischio o opportunità?
«Non sono mai stato molto preoccupato per i social network in sé, piuttosto per il modo in cui queste piattaforme, e buona parte della tecnologia di internet, ha favorito livelli di sorveglianza in una misura senza precedenti nella storia e ha permesso il consolidamento di ricchezza e potere».

Scrivendo “Il Cerchio” ha conosciuto molti lavoratori delle società tecnologiche. Nel romanzo sono descritti come ottimisti di natura: nessuno riesce a pensare alle conseguenze negative di una sorveglianza tanto generalizzata e costante. Questa descrizione era funzionale al racconto o davvero queste persone non sono in grado di comprendere appieno ciò che sviluppano anche nel mondo reale?
«La principale stranezza del mondo della tecnologia in California riguarda la percentuale estremamente alta di coloro che ci lavorano e che sono consapevoli e preoccupati per l’enorme danno che stanno procurando al mondo. Onestamente, io credo che il lavoratore medio è aperto a una maggiore regolamentazione e a più stretti vincoli etici. Loro vogliono fare la cosa giusta. Detto ciò, ci sono alcune società veramente problematiche e Facebook è la peggiore tra queste. Non hanno alcun principio etico, non conoscono cos’è giusto e cosa non lo è, e perciò non riescono a autoregolamentarsi. Recentemente ho partecipato a una conferenza a Londra sui pericoli di Facebook. Alla fine mi si sono avvicinati due dipendenti per discuterne ancora. Erano preoccupati tanto quanto lo ero io. Questo dimostra che le persone che lavorano per queste compagnie sono turbate dai danni prodotti dalle tecnologie che sviluppano. Ma soprattutto dimostra la loro disponibilità a correggerle, se solo potessero».

È una disponibilità diffusa?
«Ci sono tre tipi di impiegati nelle compagnie tecnologiche. C’è chi crede ciecamente a ciò per cui lavora, senza pensare alle ripercussioni etiche. Ci sono poi persone veramente immorali, che programmano alcuni dei più subdoli aspetti dei software. Ma c’è anche chi tiene in considerazione i problemi etici ed è in conflitto con la propria coscienza per il lavoro che fa. Tutti e tre questi tipi di impiegati sono a loro modo pericolosi».

Da dove può partire, allora, il cambiamento?
«Noi abbiamo bisogno che più persone possibili smettano di lavorare per queste compagnie per spiegare al mondo il modo in cui operano e come si può cambiare. Ci sono sempre più persone che lo fanno. Un esempio tra tanti è quello di Tristan Harris. Dopo aver lavorato per tre anni allo sviluppo per Google di un sistema informatico che avrebbe dovuto guidare “eticamente” i pensieri e le azioni di miliardi di persone dagli schermi dei propri dispositivi, nel 2016 Tristan si è licenziato e ora lavora per una società no-profit che ha lo scopo di rendere veramente più etico il mondo delle compagnie tecnologiche».

L’intelligenza artificiale è sempre più utilizzata dalle grandi società. Le nostre informazioni sono più al sicuro nelle mani di un computer rispetto a quelle di un uomo?
«L’ascesa dell’intelligenza artificiale distruggerà l’essenza dell’essere umano. Sempre più spesso permetteremo agli algoritmi di determinare il nostro accesso a qualsiasi tipo di strumento e questo ci farà diventare passivi e apatici. Per me questo è di gran lunga il più pericoloso aspetto della tecnologia».

Negli ultimi anni i dati sono stati utilizzati anche per creare software di Polizia Predittiva, simili a quelli descritti nel suo romanzo. Crede che miglioreranno la qualità della vita?
«La tecnologia renderà più sicura la società, per certi aspetti e per certi crimini. Noi però diventeremo sempre meno liberi. Questo è diventato molto chiaro negli ultimi trent’anni, in cui in molti hanno preferito sacrificare la propria libertà per una maggiore sicurezza. Lo trovo allarmante».

Esistono sistemi simili anche per reprimere il dissenso politico e culturale.
«Società pubbliche e private condividono sempre più spesso informazioni tra di loro. Il lavoro congiunto nell’acquisizione e nella condivisione dei dati apre scenari negativi per il genere umano. Nelle autocrazie, come in Cina, le società private condividono i dati con il governo: questi potranno essere utilizzati per sopprimere il dissenso e modellare una società politicamente passiva. C’è poi il sistema di credito sociale cinese, che incentiva un atteggiamento della popolazione silenzioso e compiacente. In cambio di un buon comportamento, il cittadino ottiene un punteggio che gli consente di avere in cambio piccoli e grandi vantaggi: dagli sconti al cinema all’accesso ai sistemi di collocamento lavorativo e abitativo. In questo modo, le qualità umane saranno ridotte a una cifra, e chi la determinerà non dovrà darne conto a nessuno. L’aspetto più terribile è che questi sistemi non saranno utilizzati solo in nazioni come la Cina».

Programmi simili sono già impiegati anche in nazioni democratiche.
«Negli Stati Uniti, ad esempio, abbiamo un sistema di credito sociale non dissimile da quello cinese. Questi punteggi violano i nostri diritti umani, rafforzando le gerarchie sociali, ma nessuno si oppone. Diamo per scontata la loro correttezza e il nostro dovere all’obbedienza nei confronti delle loro scelte. Ciò dimostra il terrificante livello di passività e subordinazione raggiunto dall’uomo».

Rispetto alle generazioni precedenti, i ragazzi e le ragazze nati nell’era di internet danno un valore diverso alla loro privacy. Cosa ha da suggerire?
«Gli adolescenti di oggi hanno stranamente e sorprendentemente cambiato direzione rispetto ai loro predecessori. Tra le tante opzioni preferiscono Snapchat a Facebook. E Snapchat non registra in modo pubblico e permanente la corrispondenza degli utenti. Tutto il contrario di Facebook. Ritengo che i ragazzi di oggi siano più consapevoli della permanenza in rete di quello che pubblicano, e sono anche più cauti e astuti, molto più dei loro genitori. Forse c’è qualche speranza per il futuro».

Lei è tra i principali esponenti di un dibattito sui social network e il suo pensiero sul mondo della tecnologia da molti è stato giudicato rivoluzionario. Potrebbe essere lei la guida più credibile per i giovani.
«Sto cercando di fare la mia parte. Ma per cambiare rotta sarà necessario che i consumatori cambino il loro atteggiamento e chiedano una riforma delle compagnie tecnologiche. Ogni utente deve pretendere il rispetto della sua privacy digitale, il diritto a essere proprietario dei suoi dati, ma soprattutto deve aspirare alla fine di un capitalismo della sorveglianza, che è la spina dorsale della monetizzazione di internet. Se le persone si indigneranno e raggiungeranno la consapevolezza del loro potere le cose potranno cambiare. E cambieranno davvero».

L’ESPRESSO


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