Tria tentato dalle dimissioni: troppe tensioni interne | E su pensioni e reddito il ministro apre a modifiche

Non lo aveva neanche preso in considerazione a metà settembre quando Rocco Casalino, portavoce di Palazzo Chigi, aveva orchestrato un’aggressione senza precedenti ai suoi uomini. Non ci aveva pensato più di qualche ora a fine settembre, quando i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini ignorarono la sua proposta sul bilancio. Ora però Giovanni Tria, ministro «tecnico» dell’Economia in un governo politico, è tentato dalle dimissioni più che in qualunque altro momento da quando venne chiamato a sorpresa nel governo sei mesi fa. Lo è così tanto da avere già segnato mentalmente un momento nel quale potrebbe passare la mano: durante la pausa di fine anno, quando la legge di bilancio sarà stata approvata in parlamento.

Non si tratta di una decisione già presa – sottolineano varie persone che lo conoscono — quindi Tria potrebbe restare al suo posto come del resto è già successo dopo vari incidenti politici del passato. Una figura dell’amministrazione precisa che il ministro certo non lascia, «per adesso». Ma chi ha parlato con lui racconta di averlo trovato stanco sul piano fisico e mentale ma soprattutto “stufo” di subire dal governo quelli che considera colpi alla sua credibilità. Ultimo in ordine di tempo, il comunicato di Salvini e Di Maio domenica scorsa nel quale i due leader politici ignorano Tria e sottolineano solo la loro fiducia nel premier Giuseppe Conte quale protagonista della trattativa con la Commissione Ue sui conti pubblici.

Il dettaglio decisivo di quel comunicato arriva quando i vicepremier rimarcano il ruolo di Conte nel rapporto con colui che sarebbe l’interlocutore istituzionale del ministro dell’Economia: il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici. Proprio come se Tria non esistesse o il suo ruolo non fosse apprezzato all’interno del governo.

In effetti, a quanto pare, non lo è molto. E non solo per l’estraneità politica e culturale del ministro, coinvolto in circostanze un po’ rocambolesche entro una compagine populista e euroscettica. Né solo per l’amarezza di questo economista universitario di 70 anni, che la cui proposta di un deficit all’1,9% del prodotto lordo (Pil) era stata scartata in settembre a Palazzo Chigi eppure ora sembra la sola praticabile per Bruxelles. Pesano in realtà anche gli incidenti più recenti e il loro significato politico-istituzionale.

I meno cruenti, ma più significativi, sono le divergenze con Conte stesso. Non sono mai degenerati in uno scontro personale, ma le discussioni fra i due uomini sono state ripetute perché il premier non ha condiviso alcune delle proposte che Tria aveva avanzato per provare a far accettare la manovra di bilancio alla Commissione Ue. Il ministro di recente aveva suggerito di nuovo di correggere i saldi di bilancio con aumenti mirati del gettito sull’Iva, ma Conte ha respinto l’idea con un certo fastidio. Il ministro aveva anche proposto di lasciare l’obiettivo di deficit del 2019 al 2,4% del Pil – troppo per Bruxelles – ma di provare a far accettare la manovra spostando tutte le spese su investimenti che aumentino il potenziale di crescita dell’Italia. Anche qui, il premier ha risposto che il contratto vincola il governo a lavorare sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza.

C’è però un livello più profondo – potenzialmente più carico di conseguenze – in queste tensioni interne al governo sul rapporto da tenere con la Commissione europea. Perché Tria si sente trattato sempre di più come il capro espiatorio di tutto ciò che non ha funzionato fra Roma e Bruxelles: lui e la sua squadra del ministero dell’Economia, quella che già Casalino aveva aggredito verbalmente quando ancora i piani di bilancio erano ancora da scrivere. La versione dei vertici politici del governo – fanno notare alcuni nell’amministrazione – è che l’Italia oggi rischia una procedura europea per deficit eccessivo soprattutto perché i tecnici dell’Economia non avrebbero preparato il terreno in modo adeguato, né avrebbero difeso abbastanza la logica della legge di bilancio.

Vista dai palazzi delle istituzioni, non da quelli della politica, la realtà sembra diversa: Tria e la sua squadra finora non hanno potuto scongiurare la minaccia della procedura, perché l’obiettivo di deficit fissato dai politici è troppo alto e i tecnici non hanno ricevuto dal governo un mandato negoziale preciso. La posta in gioco qui è la qualità del processo politico-istituzionale che dovrebbe permettere al Paese di maturare una posizione e difenderla in Europa.A Tria questo ingranaggio sembra ormai diventato disfunzionale, o assente. Ora il ministro teme di diventare il capro espiatorio per ciò che non ha funzionato, anche se un accordo con la Commissione Ue ormai sembra vicino. Di qui la tentazione delle dimissioni, sempre che alla fine non svaniscano nell’aria di Roma anche stavolta.

CORRIERE.IT

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