M5s, guerra sul decreto sicurezza. Minacciati d’espulsione i ribelli

Roma, 30 ottobre 2018 – Per la prima volta da quando è al governo, il Movimento naviga in cattive acque, e in particolare non se la passa affatto bene Di Maio, costretto a difendersi su troppi fronti: all’esterno da quelli che considera i ‘poteri forti’ ma anche dentro il partito, dove si moltiplicano i mal di pancia. Dal via libera contestatissimo al gasdotto Tap alla presenza del condono dentro il decreto fiscale per finire con il taglio degli emendamenti al decreto sicurezza sull’immigrazione. «Oggi sono 4 o 5 voci contro sui singoli provvedimenti, ma se domani diventano 20 cosa facciamo?», la domanda che risuona nel gabinetto di guerra stellato. Ragion per cui il capo politico dei 5 stelle detta le regole sul blog del movimento: «Siamo sotto attacco. Dobbiamo essere compatti. Molto compatti. Fusi insieme. Come lo era la testuggine romana». Chi tradisce, votando contro le decisioni della maggioranza, ne pagherà le conseguenze: «Il mio compito è realizzare il contratto di governo e i punti che ci stanno a cuore: qualsiasi altro comportamento non è da M5s e non sarà assecondato».

Ma il senatore De Falco, che guida la fronda sul provvedimento caro a Salvini in commissione Affari costituzionali, non ci sta: «Avevo chiesto un confronto sul decreto ai vertici e non l’hanno accettato». Dunque? «Non siamo un esercito. Io mi ritengo nel giusto, perchè legato al programma, al contratto e all’ordinamento costituzionale». Sulla stessa lunghezza d’onda, Nugnes («Urge decisione assembleare») e Fattori: «Facciamo cose da rincorrerci con i forconi. Io non me ne vado. Se espulsa, farò ricorso». È vero che in aula – dove il decreto sbarca il 5 novembre – Fd’I e FI sembrano pronti a dare una mano in caso di forfait dei riottosi (una decina). Le diplomazie sono al lavoro per evitare corto circuiti, ma inizia a girare la voce che si utilizzerà la fiducia per chiudere la pratica. Col rischio – sempre in agguato – di un incidente.

Un affronto, per Salvini, che utilizza il ‘caso Roma’ – la sindaca Raggi è un altro motivo di disagio per M5s – per lanciar un avvertimento, strizzando l’occhio a Giorgia Meloni: «Troviamoci per ragionare di Europa, visto che arriva, e anche di Roma». Ortodossi e ribelli, giurano che l’esecutivo «non rischia», ancorché Di Battista ‘padre’ tiri la volata al figlio Alessandro, avvertendo: «Non importa quello che c’è scritto nel contratto: il governo cadrà se passa la Tav o la Pedemontana».

Mentre per la Torino-Lione, Palazzo Chigi prende tempo, per lenire le ferite sul decreto fiscale, oggi la sottosegretaria Castelli si confronta con i gruppi, dopo l’allarme lanciato da Ruocco e Lannutti sui «valori traditi».

I partito, certo. Ma la croce principale, che spinge Di Maio a chiedere unità («Siamo dalla parte giusta della Storia: insieme vinciamo») è il consenso. Rispetto al 4 marzo, stando agli ultimi sondaggi, i pentastellati hanno perso 6 punti e l’emorragia non accenna fermarsi, visto che hanno lasciato per strada, solo dal 12 ottobre, un punto e mezzo. A sentire gli esperti di comunicazione, malgrado siano geni della web reputation, non godono in questo momento di una grande reputazione, per usare un eufemismo. «Rousseau non è perfetto, ma siamo dei pionieri», si difende Davide Casaleggio. Ma se le europee di maggio certificassero il verdetto provvisorio dei sondaggi, tenere insieme le mille anime del movimento per Di Maio potrebbe diventare un’impresa.

QN.NET

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