Sanità: 20 milioni di visite slittano a gennaio. Perché?

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Guardando i numeri, negli ultimi tre mesi dell’anno gli italiani si ammalano meno. Se invece guardi le liste d’attesa, nello stesso periodo si allungano. In tutta Italia le prestazioni specialistiche calano: in Lombardia meno 7%; in Piemonte meno 8%; in Toscana meno 9,5%; in Emilia Romagna meno 6%; in Liguria meno 9%. Le percentuali record si registrano in Molise, meno 13%, nelle Marche, meno 20%, e in Campania, meno 51% (!).

Sembra un paradosso, ma in realtà c’è un motivo, e non è confortante. Il dato nazionale parla chiaro: si passa dai 189,6 milioni di prestazioni ambulatoriali del primo trimestre, ai 170,5 milioni di ottobre, novembre e dicembre. Quasi 20 milioni in meno.

Crollano le visite ma si allunga la lista d’attesa

A Milano, nei mesi di gennaio, febbraio e marzo il 93% dei pazienti nel pubblico, e il 96% dei pazienti nel privato, riesce a fissare un appuntamento entro i tempi indicati dal medico sulla ricetta, ovvero dai 30 ai 90 giorni; nell’ultimo periodo dell’anno, la percentuale scende di circa 3 punti percentuali.

Le rilevazioni sono contenute in un report appena completato da Polis Lombardia, l’istituto per il supporto alle politiche della Regione. Si allungano i tempi di attesa, nonostante le prestazioni offerte siano meno. «Specialmente per le prestazioni più richieste, per le prime visite, si evidenzia una riduzione nel corso del quarto trimestre», si legge nel dossier con riferimento a Mantova e Cremona, ma il principio è generale. I numeri dicono che, nel 2016, le prestazioni oculistiche erogate passano da oltre 17 mila nel I trimestre, a 11 mila nell’ultimo trimestre dell’anno. Nel 2017 le visite ortopediche, nel quarto trimestre, sono scese del 26%, le cardiologiche del 37%, le neurologiche del 33%, le pneumologiche del 39%, le dermatologiche del 50%.
Quando finiscono i soldi si chiudono le prenotazioni

Il motivo è solo contabile: gli ospedali, soprattutto i privati convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale, ci curano finché hanno i soldi. Quando li finiscono, come avviene verso fine anno, chiudono le agende per le prenotazioni e ai pazienti di quasi tutta Italia viene detto: «La lista d’attesa è molto lunga». Lo riferiscono medici, infermieri e addetti alle prenotazioni. Di conseguenza, risonanze magnetiche, tac, ecografie, gastroscopie, visite cardiologiche, ginecologiche, ortopediche e controlli specialistici slittano all’anno successivo. Questo avviene perché le Regioni rimborsano le cure che vengono erogate ai pazienti sulla base di un budget definito struttura per struttura. Nel pubblico, i direttori generali che lo sforano rischiano di perdere il posto; invece i privati accreditati, una volta raggiunto il tetto di spesa, non vengono più rimborsati, dunque rischiano di rimetterci in proprio.

Il meccanismo del budget

Il principio, legato alla legge 502 del 1992 e applicato in modo sempre più stringente, è che gli ospedali, come una qualunque azienda, devono chiudere il proprio bilancio in pareggio. È senza dubbio condivisibile, in quanto serve a tenere sotto controllo la spesa sanitaria delle Regioni, ma si presta alle storture. Nella pratica, avviene che le strutture private convenzionate scelgono di gettarsi sulle prestazioni più remunerative, ovvero per quel che riguarda la specialistica ambulatoriale (che complessivamente vale 19,5 miliardi) su risonanze e tac con contrasto. In questo modo, si scaricano sul pubblico tutte le altre prestazioni (soprattutto le visite), che vanno ad allungare la lista d’attesa. La conferma è nei numeri: solo a Milano le visite e gli esami diagnostici, negli ospedali privati convenzionati, a dicembre crollano del 32% rispetto a novembre (meno 800 mila), contro il 21% del pubblico (meno 590 mila).

Come influisce su ricoveri e interventi

Il budget assegnato alle strutture, sia pubbliche che private, viene definito sulla base di quanto gli ospedali hanno speso l’anno prima. I tetti di spesa possono essere aggirati con i pazienti da fuori regione, che sono rimborsati extra budget e che muovono oltre 4,6 miliardi di euro l’anno, e a cui ambiscono soprattutto i privati. Sono per lo più ricoveri programmati che, e non può essere un caso, aumentano proprio nell’ultimo trimestre. Solo in Lombardia, tra le regioni più attrattive d’Italia per la qualità dei suoi ospedali, dove ogni anno vengono a curarsi quasi 170 mila pazienti dal resto d’Italia, nel 2017, passiamo dai 43.850 di gennaio, febbraio e marzo, ai 45.500 di ottobre, novembre e dicembre (più 1.650, pari al 4%) Proprio per limitare questo fenomeno, la Conferenza Stato-Regioni è intervenuta, la scorsa primavera, tagliando del 50% i rimborsi per gli enormi incrementi dei flussi, registrati nel biennio 2014-2015.

Il problema dei controlli

A fronte di una legge che obbliga a garantire i livelli indispensabili di assistenza a tutti, pagando il ticket, di fatto il sistema consente al privato di pensare sopratutto al fatturato, mentre il pubblico fa fatica ad organizzarsi. I problemi non risolti sono tre: una programmazione che metta in corrispondenza i bisogni di salute dei pazienti con i soldi a disposizione; l’appropriatezza degli interventi; il controllo su come viene speso il denaro pubblico. Oggi, queste attività di monitoraggio avvengono con uno scambio di carte fra Regioni e Ministero della Salute, ovvero un tanto al chilo. Sarebbe invece cruciale verificare perché tutto questo accade, ancor più per le regioni in piano di rientro. Le competenze ci sarebbero pure: per il controllo sul consumo dei farmaci, c’è l’Aifa, con 450 dipendenti; per il controllo sulle prestazioni, c’è l’Agenas, che ha appena aumentato l’organico di 100 unità. Invece si preferisce spendere 24 milioni di euro in società di consulenze. Motivo? Le resistenze da parte del Ministero e delle Regioni, che preferiscono essere «visitate» da un soggetto esterno. Conclusione: i pazienti che possono pagare di tasca propria vengono visitati subito, gli altri… aspettano.

CORRIERE.IT

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