Pochi investimenti e una folle corsa al risparmio: perché il maxi surplus tedesco è un problema anche per la Germania

di MAURIZIO RICCI

Probabilmente è effetto del clima di incertezza creato nell’economia mondiale dalla raffica delle tariffe di Donald Trump, ma, al picco dell’estate, il monumentale attivo nei conti con l’estero della Germania ha subito una battuta d’arresto. Per un attimo, il ritmo frenetico della macchina da esportazione tedesca è rallentato. Ma quasi nessuno, a Berlino e dintorni, si è spaventato. L’Ifo, il più autorevole centro studi tedesco, prevede ugualmente che, a fine anno, il conto fra import e export della Germania sfonderà quota 300 miliardi di dollari, il 7,8 per cento del prodotto interno lordo. Una sfumatura meno del 7,9 per cento del 2017 e un po’ più lontano dall’8,5 per cento del 2015. Ma certo molto più in su del 6 per cento che la Ue raccomanda come limite massimo e ancora un record mondiale: è il terzo anno consecutivo che la Germania registra il più alto attivo commerciale – in rapporto alle dimensioni del suo Pil – dell’economia globale. La Cina, supposta cattivissima pirata del commercio internazionale con la sua valanga di esportazioni, non sarà neanche fra i primi tre paesi in questa classifica.

Il surplus record è uno schiaffo a Donald Trump che, dall’abisso del deficit commerciale americano (400 miliardi di dollari previsti per quest’anno) vede le esportazioni tedesche come il fumo negli occhi e così non si accorge che il vero problema è la voglia di importare degli americani. E’ una zavorra per gli altri paesi europei che, se, invece di essere inondati dalle esportazioni tedesche, vedessero crescere le loro vendite al di là del Reno troverebbero più facile sistemare i loro conti. Ma non è una buona notizia neanche per i tedeschi. Il mega surplus, paradossalmente, si sta mangiando anche le prospettive a lungo termine della maggiore economia europea.

Il successo delle esportazioni tedesche riposa largamente sulla qualità e la reputazione mondiale dei prodotti della sua industria. Ma i saliscendi delle bilance dei pagamenti non si spiegano solo così. Al fondo, dicono gli economisti, l’attivo o il passivo nei conti correnti con l’estero è determinato da quanto un paese spende. Se è più di quanto risparmia, i suoi conti andranno in passivo, come è il caso degli Usa. Se è di meno, andranno in attivo, come è il caso della Germania. Ma chi è che, al di là del Reno, si rifiuta finanche di avvicinare la mano al portafoglio? La risposta non sta nella leggendaria parsimonia della massaia tedesca. E neanche, come si diceva ancora un paio d’anni fa, nella testardaggine con cui il governo Merkel insegue il pareggio di bilancio: la riluttanza ad investire in strade, scuole e ponti si è un po’ allentata. Il colpevole è dove non te lo aspetti: sono le aziende che non investono. L’industria tedesca non pensa al suo futuro.

“Le aziende fanno un mucchio di profitti ma non li stanno usando né per investire, né per pagare salari significativamente più alti, né per distribuire dividendi” sostiene Julie Kozack al Fondo monetario internazionale. E, per dirla francamente, nessuno riesce bene a capire perché. Dice Marcel Fratzscher, un economista fuori dal coro per quella che è l’ortodossia accademica del paese: “E’ difficile comprendere perché le aziende non investano di più se hanno tanto successo e preferiscano invece parcheggiare le loro riserve in banca, dove,  con i tassi d’interesse negativi, tenere un conto costa, invece di portare soldi”.

Quello che è certo è che non investono in Germania. Per una volta, i dati tedeschi sono negativi come quelli italiani: dal 1999, il capitale investito è cresciuto solo del 20 per cento. In Francia del 43 e negli Usa del 55 per cento. Rispetto al fatturato, anzi, il tasso degli investimenti lordi è peggiore non solo di quello francese, ma anche di quello italiano.  E’ un brutto segnale per tutti: cullata da dieci anni di crescita stabile e disoccupazione ai minimi, la più grossa economia europea si sta richiudendo su se stessa.

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