In ascolto del pensiero

Eugenio Scalfari

Vetro soffiato

In ascolto del pensiero

Cartesio è rimasto celebre in tutto il mondo della cultura per il suo detto: «Penso, dunque sono». Intorno a quella definizione cambiò profondamente la cultura europea e poi quella di tutto l’Occidente. Lo stesso Descartes ci lavorò sopra per alcuni anni, consapevole che quelle sue poche parole avevano un carattere rivoluzionario, spostando l’attenzione di tutte le persone che hanno il dono della riflessione. Non sono molte. La maggior parte agisce d’impulso ed è il loro carattere a guidarle e gli studi dominati dall’ambiente in cui vivono.

Quelli che riflettono sono i cosiddetti saggi ma in realtà non sempre sono mossi dalla saggezza; spesso sono incerti, dominati dal dubbio, talvolta per saggezza e talaltra per mancanza di volontà o per pigrizia o infine per viltà. Resta sempre, ed anzi si confronta con le varie reazioni che abbiamo elencato, la valutazione del pensiero come elemento centrale della nostra specie e quindi rappresenta un evento d’incredibile importanza che fu eguagliato un secolo dopo da Immanuel Kant con un altro detto non meno rivoluzionario: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me». Entrambe pensano al pensiero, a ciò che accade fuori o dentro di noi. Il pensiero vede e sente dentro e fuori di noi e qui un’altra domanda si pone: che cos’è il pensiero? Dove nasce? Cambia natura con lo scorrere del tempo e con il soggetto umano le cui facoltà mutano col passare del tempo?

E il tempo, a sua volta, che cos’è? Alcuni affermano addirittura che il tempo è Dio, altri che Dio altro non è che il tempo. Vedete? La parte impalpabile della vita è piena di mistero, affascinante e insieme drammatico.

Diderot disse: «I miei pensieri sono le mie puttane» cioè vanno e vengono, ti seducono e poi ti piantano dopo che tu ne hai pagato il servizio che ti hanno reso. È un modo assai adeguato di cogliere il fascino e la vitalità del pensiero. Ma dietro l’affermazione rivoluzionaria di Cartesio si affaccia un’altra figura di enorme importanza, il vero elemento fondatore della nostra specie, quello che ci distingue dal genere animalesco da cui proveniamo: l’Io. Secondo Descartes l’Io viene dal pensiero, ma secondo Kant è il pensiero che viene dall’Io. C’è di che passare il tempo su questa duplicità. Il pensiero è volatile, il più volatile di tutti i fenomeni dell’universo, più delle particelle elementari, più delle onde magnetiche, più degli atomi. C’è un altro elemento altrettanto volatile e forse ancora più importante del pensiero ed è l’energia.

C’è un rapporto tra pensiero ed energia: il pensiero può studiare l’energia e l’energia alimenta il pensiero. Il nostro pensiero però non è riuscito finora a capire come nasce l’energia. Ma il pensiero sa invece come e dove nasce: nella nostra mente, che a sua volta è un organo impalpabile del cervello. È naturalmente una creazione del cervello che è un organo corporeo con il quale comunicano tutti gli altri organi del corpo. Se la mente non ci fosse il nostro cervello retrograderebbe e la sua attività diventerebbe più scarsa di quello che conosciamo. Un’immagine che rende più efficace questa situazione si ricava da un altro tipo di confronto: la musica e un qualsiasi strumento musicale. Prendiamo per esempio un pianoforte o un violino o una batteria di tamburi. Se nessuno li suona diventano oggetti privi di qualunque funzione; non c’è musica e lo strumento non ha alcuna ragione per esistere. Se viene invece usato produce un suono impalpabile che è musica, quale che ne sia il valore artistico. Il pensiero e la mente che lo produce hanno un rapporto del tutto simile a quello d’uno strumento con la musica. Naturalmente questo paragone cambia anche secondo l’ambiente in cui viene prodotto: una stanza, un salone, un teatro, dei cantanti. L’ascolto è un ennesimo elemento da considerare per ricondurre al pensiero le nostre convinzioni.

Noi ascoltiamo il nostro pensiero con il pensiero che, insieme alle sue tante funzioni, ha anche quella di ascoltare se stesso. Infine consideriamo il rapporto tra il pensiero e l’età anagrafica di chi pensa. Esso dipende molto da questo elemento, ma in modi diversi da persona a persona. La premessa è che pensiamo tutti, salvo i neonati che ancora non sono autonomi dalla madre che li ha creati ma è una dipendenza che dura pochi mesi. Di solito dopo un anno o due al massimo il bambino ha un pensiero autonomo da altre persone; è dominato dagli istinti: se ha sonno dorme, se ha fame vuole mangiare, se soffre per qualunque ragione piange. Non sono pensieri ma sensazioni che col passar dei mesi e degli anni si trasformano in pensieri. Elementari, ma già pensieri. La nascita del vero pensiero arriva con la stagione dell’adolescenza, che è quella fondamentale della vita poiché arriva il sesso che rende sensibili l’uomo e la donna. La persona è ormai completa, il pensiero altrettanto con tutti i suoi attributi, a cominciare dalla riflessione, dal giudizio sugli altri, sull’ambiente in cui vive, sulla famiglia, sul rapporto con i coetanei, infine su tutto ciò che lo circonda. Quando hai superato l’adolescenza il pensiero ha raggiunto anch’esso la sua pienezza che però non è uguale per tutti.

Ci sono giovani ancora immaturi oppure è proprio quello il momento della loro maturità. Se prendiamo personaggi come Brodsky o Rilke o Leopardi o Dante o Thomas Mann o Foscolo, troviamo dei giovani o giovanissimi al massimo della loro creatività ma ne troviamo altri già in una vecchiaia avanzata, dopo una vita interamente creativa, che danno ancora il meglio di loro. Un esempio è Giuseppe Verdi che ormai in tarda età scrisse l’ultima e forse più importante partitura della sua musica operistica, o Benedetto Croce che morì ormai vecchio mentre stava scrivendo una delle sue riflessioni filosofiche. La mia personale esperienza è stata abbastanza positiva. Ho cominciato a pensare in modo creativo (nel senso formale del termine) da giovane, da uomo maturo e ora da quelli che i neurologi chiamano vegliardi. Il pensiero è cambiato non nel suo marchio fondamentale ma nelle sue espressioni formali. Resta ancora la sentenza cartesiana: «Penso, dunque sono». Finché durerà.

L’ESPRESSO

 

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