Immigrazione, l’accordo Ue-Turchia non funziona più. Aumentano gli arrivi via mare e terra

emanuele bonini
bruxelles

«La situazione rimane fragile». Il commissario europeo per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos, non si nasconde e non lo nasconde. In questi anni dei progressi sono stati compiuti, ma non abbastanza per poter dire di aver trovato la quadra alla non semplice gestione del fenomeno migratorio. I numeri, gli ultimi forniti dalla Commissione Ue nel rapporto sui progressi compiuti nella gestione dei flussi, sono lì a ricordare quanto tutto è ancora lontano dall’essere risolto. Solo ieri lo stesso Avramopoulos ha chiesto all’Italia di non cambiare politiche in tema di immigrazione. Interventi che non sono piaciuti a chi oggi è impegnato a preparare il governo di domani, ma la situazione dipinta nel documento prodotto a Bruxelles rischia di essere ancora più indigesto.

 L’accordo con la Turchia non funziona più?

Nel 2016 Ue e Turchia hanno sottoscritto un patto per arginare gli arrivi dei migranti. Rispetto ad allora il numero dei richiedenti asilo «è ancora estremante inferiore», segno che ha funzionato. Adesso però qualcosa sembra non funzionare più. Gli arrivi dalla Turchia, rilevano a Bruxelles, «hanno visto un aumento significativo dal marzo 2018 sia per le isole greche (9.349 dall’inizio del 2018) che per il confine terrestre (6.108 fino a oggi)». Qui in particolare il numero di cittadini extra-comunitari è aumentato di nove volte rispetto allo stesso periodo del 2017. Un campanello d’allarme.

 

Balcani occidentali, aumentano i ‘movimenti’

Ma non c’è solo la rotta del Mediterraneo orientale, quella appunto che portano i richiedenti asilo su territorio Ue via Turchia. C’è anche la rotta balcanica, quella teoricamente chiusa dall’Ue con uno sforzo diplomatico ed economico che ha visto investimenti con i Paesi candidati. L’esecutivo comunitario non può fare a meno di ammettere che sì, la situazione «si è complessivamente stabilizzata lungo la rotta dei Balcani occidentali», ma allo stesso tempo «negli ultimi mesi sono stati segnalati maggiori movimenti attraverso Albania, Montenegro e Bosnia-Erzegovina». Può voler dire che si assiste a sconfinamenti interni tra questi Paesi da parte di quanti sono rimasti chiusi a seguito delle politiche di controllo dei flussi. Ma certo sono segnali da non sottovalutare, e c’è da giurare che i leader dell’Ue che stasera si ritroveranno a Sofia per il summit dei Balcani ne discuteranno con i partner balcanici.

 

Meno sbarchi in Italia

C’è poi la rotta del Mediterraneo centrale, quella che riguarda da vicino l’Italia. Qui, durante i primi mesi dell’anno in corso, si registra una diminuzione del 77% degli sbarchi rispetto allo stesso periodo del 2017. Una buona notizia per le autorità italiane, che rischia di tramutarsi nel più classico dei boomerang. Se il Paese dovesse essere considerato non più in situazione emergenziale, la diretta conseguenza sarebbe un ulteriore disimpegno dei partner europei. A proposito di Europa: l’Ue ha dato un mano, ricordano a Bruxelles. Assieme all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), nel 2018 sono stati compiuti ritorni volontari dalla Libia per 6.185 persone, tutta gente che non è salpata alla volta delle coste italiane. L’impressione però è che tutto questo nel Paese non sia percepito, mentre al contrario è diffuso il malcontento per le resistenze di alcuni Stati membri a farsi carico di una parte dei richiedenti asilo che arrivano in Italia.

 

L’Ue insiste sulla riforma del sistema comune di asilo

Avramopoulos insiste sulla necessità di riformare il sistema comune di asilo entro giugno. E’ probabilmente uno degli ultimi a non accettare il fatto che la riforma del regolamento di Dublino, l’impianto giuridico del meccanismo di accoglienza a dodici stelle, non avverrà in questi termini. «La situazione è ancora fragile e il nostro lavoro è tutt’altro che finito», ribadisce una volta di più. Da qui l’invito a tutti a inviare «con urgenza» guardie e attrezzature di frontiera per le operazioni della Guardia costiera e di frontiera europea, ma anche a «raggiungere un accordo sulla nostra riforma in materia di asilo a giugno». Il quadro della situazione «ci ricorda che non abbiamo assolutamente tempo da perdere». Ma gli Stati non seguono la Commissione. Ne è riprova l’ammanco di risorse nel fondo fiduciario per l’Africa, concepito per investire nel continente così da evitare le partenze. Mancano 1,2 miliardi di euro, tutte risorse che le capitali hanno promesso senza ancora mantenere.

LA STAMPA

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