Ma Renzi blocca il negoziato: “Martina sbaglia ad aprire così”

carlo bertini,francesca schianchi
roma

Inchiodare i grillini e fargli rimangiare, anche simbolicamente tutti gli attacchi subiti per quattro anni: ponendo pure una condizione capestro irricevibile sulla carta, il riconoscimento dell’azione di governo di Matteo Renzi, fino al punto di pretendere nel caso una sua presenza di primo piano nell’ipotetico esecutivo guidato da Di Maio. Questa suggestione che aleggia nei discorsi dei colonnelli del «giglio magico» renziano, fa capire bene come l’approccio sia quello di chiedere una sorta di abiura sapendo che non arriverà, per complicare, se non sabotare in partenza il tentativo di costruire un governo politico con i 5 Stelle. Una richiesta che in questi termini non è stata posta ieri a Fico, ma che verrebbe messa sul tavolo dai renziani se si sviluppasse una trattativa. Nell’incontro burrascoso ieri al Nazareno prima del colloquio con Fico tra i quattro della delegazione Martina, Orfini, Marcucci e Delrio, presente Guerini, sono volate urla captate a distanza da tutti: tra Martina, che avrebbe aperto ai grillini senza condizioni sul passato e Marcucci, che invece ha preteso fosse rivendicata l’eredità dei governi Renzi-Gentiloni. «Così è una follia», gli ha ribattuto il capogruppo al Senato, «e per tenere insieme il rispetto che si deve a Mattarella e l’orgoglio del Pd, dobbiamo andare da Fico con i cento punti del nostro programma elettorale, solo quelli possono essere la base di partenza di un dialogo».

 

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Renzi infatti bolla come sconsiderata la gestione di Martina e avrebbe condotto la partita in tutt’altro modo: con un percorso più lungo, senza accelerazioni, col metodo adottato per l’elezione di Mattarella al Colle. Convinto che si possano superare dubbi e perplessità del partito solo con una sua conduzione del gioco, e dopo aver fatto maturare nel tempo il divorzio tra 5 Stelle e Lega. Conscio di aver perso di credibilità in vari passaggi, dall’ascesa a Palazzo Chigi senza passare per il voto, fino alle dimissioni a metà dopo il referendum, ora l’ex leader si rimangerebbe il suo no ai grillini solo per una mission più alta e non sotto il ricatto delle urne. Che secondo lui è la vera arma di pressione sui «governisti» del Pd.

 

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Il segretario dimissionario non vuole un governo con una maggioranza politica, altra cosa sarebbe un governo istituzionale. Per questo prova a mettere una zeppa tra le ruote del carro. «Per noi – alza il tiro un falco renziano – è arduo far digerire un accordo con i grillini ai nostri e il solo modo sarebbe se Matteo facesse da garante assumendo un ruolo centrale nel governo, come quello di super ministro dell’Economia».

E siccome le voci girano, pure i big del «partito dei governisti» del Pd sono preoccupati della piega che possono prendere gli eventi. Dario Franceschini ne parlava l’altro ieri con un politico di lungo corso che da mesi tesse la tela con il mondo grillino: dopo aver pronosticato lo «scongelamento» del Pd, il ministro della Cultura spiegava appunto che il problema sta in Renzi che vorrebbe condurre la partita rivestendo un ruolo da protagonista, addirittura come vicepremier. Di fatto, una sorta di reciproco riconoscimento politico tra l’ex segretario e Di Maio, che a quel punto verrebbe sdoganato come premier.

Ma al di là di questa che suona come minaccia per far saltare il tavolo, il confronto con i 5 Stelle deve passare il fuoco della Direzione Pd: dove i renziani dispongono di una maggioranza, a sentir loro blindata, per dire no all’insegna dell’hashtag «#senzadime». Su 209 componenti, Renzi ne avrebbe 117, Orfini 8 e Delrio 3, Martina 9, Franceschini 20, Orlando 32 ed Emiliano 14, più altri sparsi. Insomma, la strada del governo 5 Stelle-Pd è una via crucis. Un bagno di sangue che rischia di produrre un’altra scissione nel Pd.

LA STAMPA

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