Quando la politica sceglie un silenzio molto sterile

È arcinoto l’episodio che oggi forse più di ogni altro fa ai nostri occhi la grandezza politica di Winston Churchill: il discorso che, proprio quando la Germania hitleriana nel giugno del 1940 sembrava sul punto di riportare la vittoria definitiva, egli pronunciò alla Camera dei Comuni chiamando la Gran Bretagna alla lotta senza quartiere contro il nemico nazista. Perché è così: gli uomini politici
democratici parlano. Hanno il dovere di parlare ai propri concittadini. Questa centralità della parola, del discorso, è nella natura medesima della democrazia fin da quand’essa vide la luce tra il VI e il V secolo a. C. ad Atene, in un’assemblea di uomini liberi chiamati a decidere chi e come li avrebbe governati, e a ascoltare gli stessi rendere conto dei propri propositi e del proprio operato. Senza comunicazione tra governanti e governati, insomma, non c’è democrazia.

Ma parecchi politici italiani di questa regola non sembrano affatto convinti. Specie quando le cose non gli vanno troppo bene, infatti, il silenzio appare loro come la soluzione più conveniente, il comportamento più ovvio. Garruli e spesso logorroici quando hanno il vento in poppa, diventano campioni di discrezione appena il vento gira.

Il vento è girato da tempo, ad esempio per Virginia Raggi, il sindaco di Roma. Non voglio farla troppo tragica e neppure apparire ingiusto sottovalutando il lungo malgoverno che essa ha ricevuto in eredità. Ma è un fatto che durante il mandato della Raggi la situazione della città in cui abito si sta aggravando in una misura ormai prossima al collasso. A Roma tutto è sporco, tutto è malridotto, tutto è inefficiente, i servizi fanno pena, l’arredo urbano è assente o sgangherato, gli alberi crollano, le strade sprofondano, il corpo dei Vigili Urbani gode di una fama che è meglio non dire, le tasse comunali sono tra le più care d’Italia, mentre l’organizzazione degli uffici comunali è di tipo centroafricano, e il relativo personale come del resto quello delle aziende dei servizi sembrano fare di tutto perché nei loro confronti uno sia tentato d’invocare non il licenziamento ma le decimazioni stile Cadorna.

Ebbene, nel mezzo di questo sfacelo urbano il sindaco Raggi che dice? Nulla. Non si scompone. Imperturbabile ed evidentemente indifferente alla catastrofe elettorale che immancabilmente l’attende, lei tace. Dal primo giorno. Non le passa per la testa non dico di chiedere ogni tanto scusa, ma almeno di dovere qualche spiegazione ai suoi amministrati. Di dirci ad esempio quali sono a suo giudizio le cause di tanta rovina di Roma, di che cosa pensa che ci sarebbe bisogno, che cosa intende fare per tentare di provvedere. La rappresentante della città neppure sembra sfiorata dal sospetto che tra i primi obblighi di un politico democratico ci sia quello di rendere conto . Iscritta in teoria al partito della massima «trasparenza», arruola e licenzia assessori, destituisce e nomina amministratori, con la trasparenza delle decisioni degna di un’imperatrice cinese. Una sorta di indifferente Turandot del Campidoglio, il cui silenzio è la forma che nell’Italia «nuova»spesso ama prendere l’antica arroganza del potere.

Non c’è arroganza invece (oggi almeno non c’è), mi sembra, dietro l’attuale silenzio di Matteo Renzi. C’è piuttosto l’insicurezza. Innanzi tutto sul da farsi, e poi quell’insicurezza su se stesso, sulla propria effettiva, intima, consistenza, che secondo me egli ha sempre celato dietro il fare spavaldo e fin da gradasso che è sempre stato il suo. E invece per concepire grandi progetti e sostenerli a dispetto di ogni difficoltà è necessario avere un’alta opinione di sé, essere convinti davvero delle proprie capacità: tutte cose che spesso difettano proprio a chi apparentemente ne è fin troppo dotato. In ogni caso si può ben capire come oggi possa essere penoso a uno come Renzi – sia pure in una situazione che è incertissima per tutti – confessare anche la propria incertezza. Quanto gli debba costare ammettere ( come è assai verosimile che sia) di non sapere affatto in quale direzione muoversi, confessare che oggi può dire solamente ciò che non vuole, dove il Pd secondo lui non deve andare, ma per il resto poco o nulla di più.

Solo che da Matteo Renzi non ci si aspetta tanto che egli parli del futuro. E’ piuttosto sul passato che ci si aspetterebbe di ascoltare la sua voce. Perché ad esempio è andato perduto in un giro così breve di tempo il capitale tanto cospicuo di simpatia e di fiducia che la sua comparsa sulla scena italiana era stata in grado di guadagnarsi? Che cosa non ha funzionato nel suo governo? Come mai il Partito democratico si è mostrato così rovinosamente incapace di rispondere alla campagna condotta contro di esso dai suoi avversari? E quali errori, e da chi, sono stati commessi? Una delle prime regole della democrazia è che i capi rispondono delle sconfitte. E ne rispondono pubblicamente, cioè in primo luogo non nascondendosi dietro una cortina di silenzio bensì illustrando le cause di quanto accaduto né tacendo le proprie responsabilità.

Una classe e un ambiente politici, una democrazia, si giudicano anche da queste cose. Ad esempio dall’abitudine dei suoi esponenti di dire e non dire, dal vezzo di menare il can per l’aia, dalla tendenza a tenere tutto in sospeso, di rinviare ogni decisione tra un ammiccamento e una battuta, a cui in questi giorni si assiste nel campo dei vincitori. E allo stesso modo, viceversa, dal silenzio rancoroso o imbarazzato da parte di chi gode al momento di una minore fortuna.

CORRIERE.IT

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