Prove di jihad all’italiana. Rischiamo di perdere la nostra invulnerabilità

Lorenzo Vidino

Se qualcuno aveva pensato che con il collasso del Califfato fosse finita la minaccia terrorista a livello globale e nel nostro Paese, le ultime ore hanno fatto capire che, come gli operatori del settore ben sapevano, si era semplicemente entrati in una nuova fase del conflitto con la galassia jihadista. Tre operazioni antiterrorismo in tre giorni. Nord, Centro e Sud Italia. E tre tipologie di radicalizzazione e minaccia totalmente diverse tra loro. Prima a Foggia la scoperta di una vera e propria madrassa del terrore dove un imam egiziano teneva sessioni di indottrinamento per bambini musulmani (ma perlopiù nati in Italia) con tanto di video dell’Isis e giuramento al Califfo. Poi l’arresto di un antesignano della propaganda jihadista online, ragazzo di origine marocchina nato e cresciuto nella cintura torinese che stava passando dal jihadismo da tastiera all’azione, studiando come usare coltelli e veicoli come strumenti di terrore. E infine ieri, tra Lazio e Campania, l’arresto di una rete di simpatizzanti tunisini della jihad a cui gli investigatori sono arrivati setacciando i contatti di Anis Amri, l’attentatore del mercatino di Natale di Berlino che aveva vissuto per vari anni nel nostro Paese e che avrebbero fatto entrare illegalmente in Italia un centinaio di connazionali.

Se i casi di Foggia e Torino sono sintomatici di dinamiche relativamente nuove (cittadini italiani, utilizzo della lingua italiana, scuola coranica, uso di social) ma che probabilmente vedremo con maggiore frequenza negli anni a venire (perché queste sono le tendenze viste in Paesi europei che da molti anni vedono una scena jihadista autoctona), l’arresto dei tunisini ricorda casi visti sul nostro territorio fin dai primi anni Novanta. Era un altro tipo di jihadismo, meno fluido di quello odierno e più fatto di cellule legate a gruppi strutturati. Ma già allora l’Italia era uno dei principali Paesi in cui il movimento jihadista si approvvigionava di documenti falsi che poi facevano il giro del mondo. Lo facevano i gruppi algerini coinvolti nella sanguinosa guerra civile nel loro Paese, che avevano creato a Napoli una vera e propria base logistica con forti legami con alcuni falsari professionisti partenopei. E lo facevano i militanti della celebre moschea di viale Jenner a Milano, prima per portare militanti a combattere in Bosnia e, verso la fine dei Novanta, per farli viaggiare verso i campi di addestramento di al Qaeda in Afghanistan.

Da allora decine di inchieste in tutta Italia hanno mostrato come passaporti e carte d’identità italiane (rubate o false) abbiano girato il mondo, aiutando militanti jihadisti a varcare confini e a nascondere la propria vera identità. Un documento comunitario permette a chi lo possiede di entrare in Europa e, più in generale, girare il mondo senza attrarre il tipo di controlli che un passaporto di un Paese mediorientale o comunque non occidentale inevitabilmente ingenera. Tutte cose che i jihadisti sanno bene. Non stupisce quindi che in vari casi abbiano creato legami con sodalizi criminali nostrani per ottenere vari documenti.

Ciò non vuol dire che la teoria, complottistica e non supportata dai fatti, che vede la mafia ed altre organizzazioni criminali italiane come alleate dell’Isis sia vera. Ma vi sono casi in cui soggetti legati al mondo jihadista, molti dei quali con un passato e anche un presente criminale (non è certo rara la figura del jihadista che spaccia e compie altre attività criminali), si muovono con facilità in ambienti di illegalità e riescono a sviluppare contatti con chi procaccia loro documenti falsi. La dinamica è particolarmente comune in Campania. Il caso più recente è quello di Mohamed Khemiri, tunisino residente nella provincia di Caserta che su Facebook proclamava: «Sono isissiano finché avrò vita» e che nel marzo 2017 è stato condannato a 3 anni e 4 mesi per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e alla falsificazione di documenti.

Minaccia eterogenea quella che si sta palesando con gli arresti delle ultime ore ma che era già stata descritta così dai nostri Servizi nella relazione annuale da poco presentata al Parlamento. Da una parte radicalizzati nati e cresciuti in Italia o comunque da tempo insediati sul territorio nazionale. Ma anche infiltrazione dei flussi di immigrati e ingressi clandestini. Dinamiche complesse, entrambe da affrontare con soluzioni di lungo respiro e senza strumentalizzazioni politiche.

Niente lupi solitari, ma anche l’Italia non è immune dal pericolo islamista

LA STAMPA

 

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