L’Italia che produce deve farsi ascoltare

L’Italia ha ripreso, pur lentamente, a crescere. Il merito è soprattutto di quelle imprese che nonostante l’incertezza politica, l’elevato costo di numerosi servizi dovuto all’assenza di concorrenza, nonostante una burocrazia asfissiante e tasse elevate, prosperano e lo scorso anno hanno contribuito a realizzare un saldo positivo del nostro interscambio commerciale pari a circa 51 miliardi di euro, il 2 per cento del Prodotto interno lordo.

Gli imprenditori che dirigono queste aziende, piccole e grandi, sono italiani, producono in Italia, ma hanno la testa all’estero. Se si ascoltavano, venerdì scorso, alla Borsa di Milano, durante la «festa» per il compleanno de L’Economia del Corriere, parlavano per lo più di clienti lontani: a Hong Kong, San Paolo, Montreal.

La politica italiana non poteva essere più distante dalle loro preoccupazioni: non hanno il tempo per interessarsene. Sperano che alla fine, come sempre, tutto in qualche modo si aggiusti, e siano lasciati tranquilli a lavorare, loro e i loro dipendenti con i quali hanno rapporti costruttivi e sereni. Il sentimento prevalente era questo: l’Italia, pur con qualche turbolenza, rimarrà ancorata all’Europa, il commercio internazionale, nonostante Trump, rimarrà aperto, la pressione fiscale rimarrà elevata, ma come è sempre stata. L’Europa progredirà, a piccoli passi e occasionalmente con qualche errore, ma progredirà, e l’Italia continuerà ad essere parte attiva di quel processo.

Nel frattempo l’altra metà dell’economia, quella che non cresce, che vive di sussidi pubblici e situazioni iperprotette, continuerà a sopravvivere. Nulla di nuovo, come il debito, una palla al piede cui ormai siamo abituati. Insomma, un cielo con piccole nubi ma sostanzialmente sereno. E’ da molti anni che la borghesia italiana produttiva, quegli imprenditori appunto, si disinteressa di politica. La ha delegata ad altri. Un tempo alla Democrazia Cristiana e ai suoi alleati come il Partito repubblicano, poi a Berlusconi, più recentemente alla parte riformista del Pd.

Non che l’Italia produttiva fosse sempre contenta delle politiche attuate da questi partiti. Molti imprenditori (non tutti, non quelli che vivono di sussidi e sperano nella svalutazione) avrebbero preferito un partito davvero moderno, favorevole al mercato e all’Europa, rigoroso con la spesa pubblica, liberista. Ma un tale partito non esisteva e allora speravano che quelli disponibili non facessero troppi danni e li lasciassero lavorare in pace.

Oggi la situazione sta cambiando. I programmi dei partiti che si dicono vincitori delle elezioni, 5 Stelle e Lega, prefigurano governi (come ieri giustamente osservavano Angela Merkel e Emmanuel Macron nel comunicato emesso alla fine del loro incontro) disinteressati alla costruzione europea. Anzi, pronti, sui conti pubblici, a sfidare l’aritmetica, prima ancora che l’Europa e a rendere ancor più pesante l’onere che stiamo trasferendo alle generazioni future che oggi non votano. Governi che sul protezionismo abbracciano Trump, non Bruxelles.

Oggi corriamo il rischio che la politica non sia piu’ solo un rumore di fondo che può infastidire ma non disturba. Una politica che nonostante penalizzi con aliquote fiscali eccessive chi produce, continua a non proteggere i piu deboli, soprattutto al Sud, e grazie al reddito di cittadinanza disincentiva il lavoro. Insomma una politica che rischia di rendere la vita impossibile a quanti vivono di produzione, esportazioni, non di rendita.

Una politica più attratta dall’Europa di Visegrad (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca) piuttosto che da Parigi, Berlino e Bruxelles non è più un’eventualità da escludere. Ne’ si può escludere una tassa una tantum sulla ricchezza per finanziare il reddito di cittadinanza e per frenare la crescita di un debito trascurato. I mercati per ora sono tranquilli, ma è solo in mezzo ad una crisi che ci si rende conto di che cosa accade se gli investitori esteri, che detengono il 40 per cento del nostro debito, voltano le spalle al Paese. Una storia che abbiamo già vissuto ai tempi della crisi greca.

Certo, si può sperare che chi si dice vincitore, alle promesse irrealizzabili faccia seguire il realismo di chi vuole governare e che tutto si aggiusti. Ma il cambio di direzione annunciato in termini di Europa, alleanze internazionali, politiche economiche interne preoccupa, e non poco. E’ per questo che l’Italia che produce, il Paese attivo, lontano dalle rendite, abituato a competere da noi e nel mondo, abituato a far valere il merito, deve tornare a far sentire la sua voce.

CORRIERE.IT

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