Aldo Moro, 40 anni dopo: ho camminato sull’orrore

Fabio Martini
ROMA
 

Quella mattina la notizia irruppe nelle case, non dalla tv, ma attraverso la radio, che era ancora ospite e compagna affidabile di milioni di italiani. La voce dell’annunciatore Rai tradiva una trepidazione e un’emozione mai sentite prima sulle onde di Stato: «Gentili ascoltatori, siete collegati con la redazione del Gr2… interrompiamo le trasmissioni per una notizia che ha dell’incredibile e che anche se non ha trovato una conferma ufficiale, purtroppo sembra sia vera… Il presidente della Democrazia cristiana, l’onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco fa da un commando di terroristi. L’inaudito, ripetiamo, incredibile episodio è avvenuto…». Lo speaker proseguì ancora per pochi attimi e concluse: «A risentirci più tardi».

 

Abitavo a duecento metri da via Mario Fani, periferia Nord di Roma. Di quell’istante accanto al mio transistor ricordo solo una sensazione: il cuore in gola. Il pensiero rivolto confusamente a Moro, ai suoi agenti e ai miei genitori, che erano usciti proprio in direzione di via Fani mezz’ora prima. Erano le 9,28 del 16 marzo 1978: mi scapicollai e in tre minuti arrivai sul luogo dell’agguato. Ai miei occhi – quelli di un ragazzo, che aveva vissuto in un tempo di pace – si presentò uno scenario di guerra. Guerra sulle strade dove di solito giocavo a pallone e dove consumavo le giornate, bighellonando con gli amici.

 

Mi avvicinai lentamente, impietrito. La prima sorpresa: mancava quella perimetrazione con nastro segnaletico alla quale siamo stati abituati negli anni successivi, e perciò chiunque aveva libero accesso sulla terribile scena dell’assalto. Camminai sull’orrore. Sull’asfalto un telo bianco copriva il corpo di un uomo, ma il lenzuolo era troppo corto e dai lati spuntavano due mani oramai senza vita. Avanzavo in trance. Per puro caso riuscii a non calpestare un bossolo lasciato sul marciapiede e cerchiato da una linea gessata. Un metro più avanti, una pistola. Scarica, sull’asfalto. E poi quella martoriata Fiat 130 blu, bucata dalla pallottole: nelle ore successive si sarebbe saputo che era l’auto dove si trovavano Aldo Moro, l’autista Domenico Ricci, e l’eroico maresciallo Oreste Leonardi, che col suo corpo aveva protetto il presidente della Dc.

 

Non dovetti sporgermi con lo sguardo dentro l’abitacolo, per notare sui posti posteriori una grossa macchia rossa di sangue. Intorno infermieri, carabinieri, passanti, persone indefinibili a prima vista. Successivamente si seppe che tra i tanti c’era anche Umberto Pizzi, uno dei fotografi della Dolce vita: Liz Taylor lo chiamava «rubber face», faccia di gomma, e tanti anni dopo Pizzi avrebbe immortalato i nuovi potenti col suo «Cafonal». Quella mattina in via Fani aveva lambito la strage anche uno di noi, uno dei ragazzi del quartiere, Francesco Pannofino, non ancora ventenne, che sarebbe diventato attore.

 

Poi, superato il momento iniziale, le forze dell’ordine ripresero il controllo. Eppure, non sono bastati i 40 anni successivi per capire chi si avvicendò in quelle ore in via Fani. Criminali comuni? Agenti dei servizi? Poliziotti arrivati troppo presto? Chi poteva pensare che il Bar ristorante Olivetti, dove si andava nei giorni di festa a mangiare i tortellini alla panna, era stato amministrato da un personaggio coinvolto in una complessa vicenda di traffico internazionale di armi e dunque suscettibile di qualche indagine, mai svolta dalla magistratura? Tanti indizi successivi raccontano come quella mattina, sulla scena della strage, c’era già il senso di tutta la storia: un’azione promossa dai brigatisti ma poi «accompagnata» da tanti altri poteri.

 

Spenti i riflettori, via Fani tornò quella di sempre. Una tranquilla strada di ceto medio nel quartiere Monte Mario, che – una volta all’anno – ha fatto da fondale alle autorità che arrivano davanti alla lapide in ricordo dei cinque agenti uccisi. Una lapide priva di quel senso grave della storia consumata in quel luogo e che oggi sarà sostituita da un nuovo monumento che dovrebbe trasmettere più solennità. Un modo per rispondere idealmente a quel che scrisse Aldo Moro alla moglie Nora: «Mentre lasciamo tutto», «che di tutto resti qualcosa». Le parole struggenti di un uomo che stava per essere ucciso e che affidava a quella lettera la speranza che il senso di sé e del proprio passaggio terreno non fosse disperso nella banalità.

LA STAMPA

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