Il talento smarrito per i patti

Tra il 2008 e il 2014 il reddito italiano, a prezzi costanti, è diminuito del 10 per cento, mentre quello del resto dell’Europa è aumentato del 2 per cento, quello degli Stati Uniti dell’8 per cento, quello mondiale del 20 per cento. Dal 2016 vi sono segni di ripresa in Italia e l’ultima indagine della Banca d’Italia sulle imprese con più di 50 addetti mostra che vi sono aspettative di crescita perché vi sono attese di miglioramento della domanda. Le condizioni per investire si confermano favorevoli. Ma, mentre noi ricominciamo a camminare, gli altri Paesi, che non si sono mai fermati, corrono. Possiamo, quindi, permetterci dopo questa fase pre-elettorale, qualunque sia il risultato delle urne, una lunga pausa e il gioco della politica al quale il passato lontano ci ha abituato, condito eventualmente da governi d’attesa, compagini ministeriali balneari, governi del presidente? Che cosa si può fare fin da ora e che cosa si dovrà cercare di fare dopo il 4 marzo per rendere la formazione di un governo più rapida? Con forze politiche tanto frammentate, un quadro pre-elettorale così incerto e risultati non prevedibili, è difficile pensare che le forze politiche annuncino fin da oggi alleanze, tanto più che non sono certi gli orientamenti di alcune di esse e altre negano di voler fare accordi. Ma l’esperienza dei negoziati internazionali insegna che anche durante i conflitti, persino durante le guerre, possono esservi negoziati riservati, affidati a «sherpa» che tastano il terreno.

Gli «sherpa» sondano opinioni, chiariscono i rispettivi punti di vista, espongono future preferenze. Gli Stati Uniti e la Cina sono arrivati ad accordi, negli anni 70 dello scorso secolo, proprio grazie a trattative riservate che si svolgevano mentre le due nazioni si opponevano l’una all’altra. Una volta avuto il risultato elettorale, si apre una fase difficile: l’esperienza tedesca in corso insegna quanto sia complessa la negoziazione tra forze politiche che si sono affrontate fino a ieri nel Paese (anche se lì vi è già un lungo passato di gestione consensuale del governo). Dopo le elezioni, le forze politiche, se sono interessate a riacciuffare il treno dello sviluppo del Paese, debbono armarsi di tutti gli strumenti dei negoziatori.

Il primo è quello di scegliere gli argomenti divisivi, e rinunciarvi, se si vuole raggiungere un accordo: «decidere di non decidere» è una scelta coraggiosa, e ogni buon politico dovrebbe saperla fare. Si pensi a quel che fece Togliatti, in momenti ben più drammatici, accantonando la questione istituzionale e, più tardi, rallentando e in parte insabbiando l’epurazione. Grazie a quelle scelte il popolo italiano potette esprimersi sull’alternativa Monarchia-Repubblica e si evitò una mezza guerra civile. Sulle questioni non rinviabili, quelle su cui lo scontro appare non eliminabile, poi, bisogna saper negoziare, non avere paura del compromesso, non farsi catturare dalla mitologia italiana che qualifica, anche per scarsa conoscenza del dialetto napoletano, «inciucio» ogni specie di accordo.

L’Italia partecipa ogni giorno a negoziati europei, dove si deve decidere insieme, 27 Paesi. Lì si esercitano tutte le arti della negoziazione, una delle quali è quella delle decisioni dette «a pacchetto». Se non si raggiunge un accordo su tre temi, se ne aggiungono altri tre, sui quali possono farsi concessioni reciproche. Così non solo si stringono alleanze, ma si fanno progressi in un maggior numero di direzioni.

Prima con la legge elettorale Calderoli, poi con il referendum costituzionale, infine con la legge Rosato, Parlamento e popolo italiani hanno scelto una strada per il futuro del Paese, quella fondata sulla formula elettorale proporzionale e sulla gestione «consociativa» del potere. È una strada che abbiamo già percorso per circa cinquant’anni, fino al 1993, quando si cominciò a pensare che si potesse in Italia sapere qual è il governo la sera delle elezioni. Quest’ultimo obiettivo è divenuto ora irraggiungibile. Il governo sarà quello che le forze politiche in Parlamento riusciranno a costruire, a forza di negoziati e compromessi. La strada ora imboccata presenta, però, una ulteriore difficoltà rispetto a quella che abbiamo percorso dal 1946 al 1993. Allora gli accordi avevano al centro una forza politica, la Democrazia Cristiana, un partito che ha funzionato da perno, perché di maggioranza relativa e quindi sempre presente. Ora abbiamo perduto anche questo. Buon motivo perché le forze politiche si abituino ad accettare il negoziato come regola del gioco necessaria, con le inevitabili rinunce e gli indispensabili compromessi.

CORRIERE.IT

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