Lavoratori del digitale, l’esperta di Standford: “Non è la tecnologia che minaccia le loro tutele”

BARBAra D’AMICO
 

Questa intervista a una delle massime esperte internazionali di mercato del lavoro digitale, fa parte dell’approfondimento de La Stampa dedicato ai digital workers e all’occupazione al tempo di app, piattaforme e ingaggi da remoto.

 Margaret Levi è professoressa presso il Centro di Studi Avanzati in Scienze Comportamentali (CASBS) della Standford University (Stati Uniti), e contribuisce con la sua ricerca alla Standford Cyber Initiative, l’unità di studio creata dall’università americana nel 2015 per studiare l’impatto di algoritmi, nuove tecnologie e app sul lavoro e sui diritti dei lavoratori.

Il suo contributo sta aiutando a capire gli effetti del crowdsourcing e del recruiting online (cioè l’ingaggio di personale tramite piattaforma e l’organizzazione di intere imprese senza una sede fisica) sul mercato dell’occupazione e sui diritti dei lavoratori.

 

Prof.ssa Levi, piattaforme e app hanno cambiato il modo in cui i datori assumono i lavoratori nonché il modo di cercare occupazione: ma quali sono gli effetti indesiderati (positivi e negativi) del crowdsourcing online?

«L’aspetto sicuramente positivo è una crescente coordinazione tra chi cerca lavoro e chi lo offre. Il processo di ricerca è facilitato e velocizzato. Poi, nel caso in cui il lavoro o le mansioni possano essere svolti in tempi e posti diversi da quelli in cui si trova il datore, le piattaforme non fanno che arricchire il mercato del lavoro e possono facilitare anche la creazione di gruppi di lavoro in continenti e con fusi orari diversi. Il lato negativo è che tutto questo crea un mercato del lavoro ancora largamente non regolato con il rischio di aumento della possibilità di sfruttamento dei lavoratori e negazione di quelli che per molto tempo sono stati considerati i loro diritti».

 

Quanti lavoratori digitali esistono oggi e quanti ne esisteranno in futuro?

«I dati attuali non sono certi e al momento non possiamo fare stime».

 

Davvero la tecnologia sta minacciando il potere e i diritti dei lavoratori?

«E’ una domanda mal inquadrata: non è la tecnologia che minaccia i diritti dei lavoratori e il loro potere, ma sono le lobby e i Governi».

 

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Le attuali regole nazionali sul lavoro e sulle tutele dei lavoratori possono influenzare il modo in cui le piattaforme digitali ingaggiano chi cerca occupazione? O abbiamo bisogno di norme specifiche?

«I nostri riferimenti normativi sono stati creati in un’altra era, quando era la manifattura a dominare la scena, e poi modificati e adattati in qualche modo al mondo dei servizi. Abbiamo bisogno di nuove regole che riflettano l’attuale contesto economico e tecnologico in cui viviamo».

 

In Europa i rider (fattorini) e lavoratori digitali organizzano proteste e stanno in alcuni casi trascinando aziende come Uber in giudizio per veder riconosciuto il loro status (non lavoratori occasionali ma dipendenti): le piattaforme digitali trascinano i lavoratori nell’anonimato?

«In realtà qui il problema non è l’anonimato ma come è definito legalmente l’inquadramento lavorativo di queste persone e cosa comporti per i loro diritti il fatto di negoziarli collettivamente invece che singolarmente e infine come possano ottenere migliori salari e tutele. E poi non credo che sia l’anonimato che renda difficile per i lavoratori collaborare e organizzarsi quanto invece la mancanza di interazione sociale da un lato e il crescente disgusto nutrito da molti lavoratori verso i sindacati dall’altro».

 

Piattaforme come Amazon Mechanical Turk o Deliveroo permettono di ingaggiare lavoratori senza contratti specifici o tutele ma sulla sola base delle mansioni o task da completare: possiamo considerarla la versione contemporanea della catena di montaggio nelle industrie del 19simo secolo?

«In realtà svolgono lavoro in una forma che esiste ancora nel 20simo e 21simo secolo. Ma le loro condizioni hanno più che altro punti in comune con i laboratori clandestini, una realtà che i sindacati pensavano di aver sradicato del tutto».

 

Dal punto di vista economico e sociale, qual è il prezzo che pagheremo per un uso prolungato dell’ingaggio di lavoro digitale tramite crowdsourcing?

«Il prezzo è ciò che alcuni dei miei collaboratori (Michael Bernstein and Melissa Valentine) hanno definito “flash organizations” (insieme di persone strutturate come se fossero un’impresa ndr), cioè modalità completamente nuove di cooperare e creare impresa».

 

E invece qual è l’effetto del rendere la maggior parte dei lavori freelance?

«Negli Stati Uniti molte tutele e benefit dei lavoratori sono già legati direttamente all’impresa. Il lavoro freelance introduce nuove forme di precariato e quindi richiede nuove forme di tutela e welfare. Almeno, qui se ne sta discutendo parecchio».

 

I sindacati, specialmente in Europa, hanno aiutato i lavoratori e i governi a creare regole per la protezione dei diritti dei lavoratori stessi, eppure sembrano totalmente impreparati di fronte alla protezione di fattorini e lavoratori digitali: a cosa dovrebbero assomigliare allora i sindacati del futuro per migliorare la condizione dei lavoratori del digitale?

«I sindacati, ammesso che continuino a chiamarsi così, dovranno elaborare nuove strategie organizzative proprio come hanno fatto quando il lavoro è passato dall’essere artigianale all’essere industriale. Esistono dei modelli là fuori, ma nessuno per ora è riuscito a cogliere nel segno».

 

Le digital company hanno tutto l’interesse a mantenere il lavoro flessibile, perché lo considerano un plus per la propria produttività (fino a quando un lavoratore è freelance è responsabile lui solo dei propri diritti, costi compresi). Esiste però qualche esempio storico che possa dimostrare se e come le tutele sociali e lavorative elargite dalle imprese abbiano mai ridotto o minacciato la crescita economica dell’impresa o dell’economia a livello globale? E’ solo lo Stato che deve garantire tutele ai lavoratori?

«Siamo tutti responsabili delle tutele sociali, attraverso le tasse e altre forme di pagamenti. Il Governo dovrebbe amministrare, ma le imprese e gli stessi lavoratori dovrebbero contribuire. I benefit, ad esempio, dovrebbero poter diventare “portabili” (cioè trasferibili per il lavoratore da un’azienda all’altra, ndr) c’è molta discussione su questo punto. Invece non ho nessuna prova del fatto che le tutele del lavoro abbiano mai minacciato la produttività o la crescita economica. Invece, molti analisti attribuiscono la crescita degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra all’esistenza di un patto tra industria e lavoratori. Patto fondato sulla produttività dei lavoratori in cambio di migliori tutele e salari».

 

Qualcuno ha accostato i fattorini/rider e i lavoratori delle app a chi negli anni 50 e 60 svolgeva piccoli lavoretti senza particolare tutele: quindi perché oggi quello stesso tipo di lavoratore vuole una forma di protezione che quel tipo di lavoro di fatto non ha mai avuto? Siamo più consapevoli dei nostri diritti di quanto non lo fossimo allora?

«Le assicuro che anche in quel periodo storico quel lavoratore voleva molte più tutele, solo che non poteva ottenerle. Appena ha potuto – penso al caso della United Parcel Service (UPS) o dello U.S. Post Office – se ne è avvalso alla grande».

 

Ci sono lavori che oggi godono di protezione e che magari tra 5 o 10 anni saranno digitalizzati (in particolare il processo di ingaggio e l’assegnazione delle mansioni)?

«Ci sono prove evidenti per cui lavori di routine, come quello chi sta allo sportello in banca o i tecnici degli ascensori, saranno completamente automatizzati ma ci sono anche molte ragioni di credere che i vecchi lavori saranno mantenuti, penso alla cura della persone e alla formazione scolastica, e che molti altri lavori saranno creati da zero così come altri saranno integrati dalla tecnologia».

LA STAMPA

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