I paradossi nascosti nelle urne

Bill Emmott
 

A ogni appuntamento con il voto, c’è un crescendo di enfasi: politiche, di partiti, di personalità. I sistemi elettorali in vigore negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o in Francia, dove chi vince conquista la maggioranza assoluta, tendono a favorire le personalità, e solo in seconda istanza i partiti, mentre quelli con rappresentanza proporzionale, come in Germania o nei Paesi Bassi, favoriscono i partiti e poi le politiche. La stranezza dell’Italia, nel 2018 come nelle precedenti elezioni, è che, nonostante il sistema sia per lo più proporzionale, le personalità con ogni evidenza predominano.

 Questo, da una prospettiva internazionale, a un osservatore non italiano appare bizzarro. Ma qualsiasi lettore di un quotidiano italiano sa già che la politica nell’Italia moderna è, ed è sempre stata, principalmente un gioco di personalità, e che la logica della fedeltà al partito è buona seconda e con grande distacco.

 

Tuttavia, il risvolto strano e spiacevole di tutto questo, e che ogni analista, economista o giornalista sa, è che ciò di cui il Paese ha bisogno per porre fine ai suoi vent’anni di sottosviluppo economico rispetto ai vicini dell’Europa occidentale è una politica migliore.

Quindi sarebbe auspicabile vedere una competizione volta a costruire il consenso, e di conseguenza le coalizioni, attorno a politiche che servano a riformare l’Italia e a cambiarla in meglio.

 

In una certa misura, è ciò che sta accadendo. Ma mi pare ci siano tre grandi ostacoli: in primo luogo il grande rumore mediatico generato dalle due personalità dominanti: Silvio Berlusconi e Matteo Renzi; in secondo luogo l’associazione delle politiche più innovative con un approccio euroscettico e conflittuale a Berlino, Francoforte e Bruxelles; infine, il fatto che mentre le singole politiche appaiono radicali e innovative, i partiti le accompagnano con un incoerente pacchetto di altre iniziative che minano la loro credibilità complessiva.

Prendiamo le due proposte politiche che, da straniero, mi sembra abbiano un autentico potenziale per fare una grande differenza per l’Italia nel lungo periodo. Una è l’imposta sul reddito forfettaria, promossa dalla Lega Nord e ora adottata da tutto il centrodestra. L’altra è la proposta dei Cinque stelle per un nuovo «reddito minimo di dignità» rivolto a persone che necessitano di riqualificazione e sostegno nella ricerca di nuovi posti di lavoro.

 

Penso da anni che l’idea di un’imposta sul reddito semplificata con una sola aliquota pagata da chiunque guadagni oltre un determinato importo, nota come imposta forfettaria, si addica molto all’Italia. La battaglia infinita del Paese contro l’evasione fiscale e l’enorme economia illegale rendono una soluzione del genere piuttosto naturale.

 

L’incentivo all’evasione fiscale dev’essere ridotto. La finzione della tassazione progressiva in un contesto ad alto tasso di evasione deve finire. L’attuale situazione, in cui un onere fiscale iniquo ricade sui poveretti che non sono in grado di evadere le tasse – il che significa milioni di semplici impiegati e salariati – è ingiusta e improduttiva.

 

Inoltre il corollario logico e necessario alla riforma del diritto del lavoro, il Jobs Act di Matteo Renzi, sarebbe un sistema di tutela contro la disoccupazione in grado di aiutare i dipendenti che hanno perso il posto a trovare un nuovo lavoro, come proposto dai Cinque Stelle. Questa combinazione di nuove leggi sull’occupazione e aiuto per l’adeguamento del lavoro è esattamente ciò che il presidente Emmanuel Macron ha promesso durante la sua campagna elettorale in Francia l’anno scorso, e che i Paesi scandinavi come la Danimarca utilizzano già con molto successo.

 

Quindi, a prima vista, a questo non italiano sembra che le opzioni politiche più pratiche e interessanti siano proposte da partiti ampiamente considerati agli estremi della politica. Una vittoria dei Cinque Stelle o della Lega Nord sarebbe considerata, soprattutto dai mercati finanziari internazionali, come una ricetta per l’instabilità. Il risultato «stabile» sarebbe una grande coalizione centrista mediata da Berlusconi e Renzi.

 

Eppure una tale «stabilità» implica che l’Italia continui ad avere performance economiche insufficienti: anche oggi, con il più rapido tasso di crescita economica del Paese dalla crisi finanziaria del 2008, l’Italia sta crescendo più lentamente di qualsiasi altro Paese dell’eurozona a parte la Grecia. Solo la Grecia e la Spagna hanno tassi di disoccupazione più elevati rispetto all’Italia, e con una crescita spagnola del 3% all’anno attualmente due volte quella italiana, a breve il tasso di disoccupazione in Spagna, attualmente al 16,7%, potrebbe scendere al di sotto di quello dell’Italia (11%).

 

Quindi l’Italia ha bisogno di innovazione politica e di riforme. Il governo Renzi del 2014-2016 ha deluso perché, nonostante abbia annunciato a gran voce le riforme, ha concluso troppo poco. Idee come la tassa forfettaria e il reddito di cittadinanza sono logiche eredi degli scarsi risultati ottenuti da Renzi con il Jobs Act, l’aiuto alle start-up e incentivi per gli investimenti in tecnologia avanzata.

 

Lasciatevelo dire da questo cittadino di un Paese come la Gran Bretagna che ha scelto la Brexit: la via peggiore e più seducente è l’euroscetticismo. Sì, tanto i Cinque Stelle come la Lega hanno attenuato le loro posizioni sull’euro. Tuttavia, entrambi continuano a fare affidamento su questo presunto potenziale per costringere la Germania e la Commissione europea a allentare i vincoli sulla politica fiscale italiana; probabilmente non è una strategia di successo, ma non è comunque sensato per un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del Pil e un sistema bancario ancora vulnerabile. L’Italia ha bisogno di amici a Bruxelles, Berlino e Francoforte, non di nemici.

 

E poi ci sono i pensionati. Berlusconi sembra Trump quando parla di modificare la legge Fornero del 2012. Ma questo è l’opposto di ciò che serve a un Paese che per le pensioni pubbliche spende, in percentuale sul Pil, più soldi dei contribuenti (il 16%) di qualsiasi altra grande nazione europea, e cioè quattro volte di più che per l’istruzione e la formazione. L’età pensionabile è troppo bassa, non troppo alta: il 76% degli svedesi di età compresa tra i 55 e i 64 anni è in attività rispetto al 52% degli italiani (e al 51% dei francesi).

 

Promettere una politica pensionistica così sconsiderata e generosa significa minare la credibilità dell’imposta sul reddito forfettaria; promettere uno scontro con Bruxelles sulla politica fiscale significa minare la credibilità delle promesse di un’assistenza sociale in stile scandinavo.

 

Tutto ciò ci riconduce al discorso sulle personalità. Il sistema elettorale del Rosatellum offre un forte vantaggio a chiunque sia in grado di formare coalizioni, sia prima del voto per vincere in una gran parte dei collegi elettorali uninominali, sia successivamente, a meno che un miracolo non doni la maggioranza assoluta a un singolo partito o a una coalizione.

 

Ecco perché il grande architetto di coalizioni, Silvio Berlusconi, è tornato al centro della scena. Contrariamente a quanto i suoi giornali hanno scritto su di me, lo considero ancora «inadatto» a guidare l’Italia come lo era nel 2001, quando noi di The Economist gli dedicammo la nostra famigerata copertina. Ma probabilmente il 5 marzo avrà ancora un ruolo cruciale – sfortunatamente.

 

Traduzione di Carla Reschia

LA STAMPA

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