La tassa che frutta 1 miliardo e ne scippa 18 alle imprese

Fare cassa con un miliardo in più sottraendo al tempo stesso liquidità preziosa alle aziende.

Lo split payment dell’Iva, ossia il versamento diretto dell’imposta da parte degli acquirenti pubblici al posto dei venditori, fa male al sistema-Italia. Tutte le forze di opposizione durante i passaggi parlamentari del collegato fiscale, in cui è inserita la sua estensione anche a Fondazioni partecipate dallo Stato ed enti pubblici economici, non hanno mancato di sottolineare gli effetti distorsivi di questa misura che deprime le aziende. Lo ha fatto Forza Italia con il senatore Andrea Mandelli che ha ricordato come il servizio bilancio di Camera e Senato avesse sollevato obiezioni. Lo ha fatto anche il Movimento 5 Stelle, sempre più intenzionato a conquistare la fiducia delle pmi, con il deputato Giorgio Sorial ricordando che l’evasione di circa 35 miliardi di Iva non giustifica questo tipo di intervento.

Tanto gli azzurri quanto i grillini si sono dimostrati sensibili ai richiami delle associazioni di categoria che da mesi chiedono alla politica di fare un passo indietro. Emblematico, in questo senso, il contenuto di un dossier preparato da Confartigianato assieme all’Istituto per la competitività (I-Com) nel quale si ricorda che la «scissione del pagamento» (in inglese split payment) riduce di 18 miliardi di euro all’anno (1,5 miliardi in media al mese) la liquidità delle circa 2 milioni di imprese che hanno rapporti con il pubblico. Questo equivale a una media di 800 euro al mese per ogni azienda.

Una cifra non trascurabile se si tiene presente la dimensione spesso ridotta della maggior parte delle imprese italiane. Per realtà come le pmi 800 euro in meno ogni mese fanno la differenza, soprattutto se si considera che la manovra correttiva dello scorso aprile ha ridotto ulteriormente la possibilità di ricorrere alla compensazione dei debiti Iva con i crediti senza certificazione di un professionista terzo, abbassando la soglia a 5mila euro. Anche in questo caso si tratta di costi che si aggiungono a quelli della mancata liquidità cui molto spesso si deve sopperire tramite finanziamenti bancari comunque costosi.

Tali criticità si appaiano con la cronica disfunzione del ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione per i quali l’Italia è stata di recente deferita alla Corte Ue. Il corto circuito tasse e debiti non pagati è esiziale per molte realtà. «Per il settore delle costruzioni si tratta poi di un’autentica emergenza con medie di ritardo che vanno ben al di là di quelle già segnalate dall’Ue», ha denunciato il presidente dell’Ance, Gabriele Buia, ricordando che «i nostri ultimi dati aggiornati ci dicono che qualche miglioramento c’è stato, ma siamo ancora nella media di 5 mesi di ritardo, inaccettabile per imprese già stremate dalla crisi e a corto di liquidità anche per effetto del meccanismo dello split payment». Non è un caso che anche i colossi del comparto dell’edilizia siano spesso costretti alla ristrutturazione del debito bancario per il combinato disposto del ritardo dei pagamenti delle grandi commesse e dell’Iva trattenuta direttamente dallo Stato.

Le opposizioni fanno bene a lamentarsi. D’altronde, in un Paese nel quale le imprese hanno un tax rate medio del 62% le campagne elettorali si possono vincere puntando a un cambiamento delle norme.

IL GIORNALE

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