«Imbullonati» alla poltrona, perché non si dimettono mai

«Io no che non mi schiodo / non mi schiodo / io non mi schiodo…» Carlo Tavecchio, l’«Ercolino sempreinpiedi» presidente della Figc nonostante l’accumulo di gaffes e di accordi osceni con la società dell’azzardo, ha scelto il suo inno personale, ispirato a una canzone di Jovanotti e lanciato anni fa da «Striscia la notizia» per celebrare l’inamovibilità di Giulio Andreotti. A dispetto dei cori di «vattene» seguiti all’addio dell’Italia ai Mondiali di calcio lui no: non si schioda. Anzi, se non fosse stato scelto come capro espiatorio, non si sarebbe schiodato neppure Giampiero Ventura.

Perché mai dimettersi per una banale «catastrofe» (parole tavecchiane) che non accadeva da sessant’anni? Per carità, i due sono in buona compagnia. L’Italia non abbonda, da Luigi Cadorna a Francesco Schettino, di uomini disposti ad assumersi dignitosamente le proprie responsabilità. Più facile trovare quelli che se ne infischiano. E magari ci ridono sopra. Il più spiritoso, in un’intervista a Piero Chiambretti, fu Francesco Cossiga. «Come devo chiamarla, Presidente? Perché lei si dimette continuamente?», chiese il conduttore. «Io non mi dimetto. Minaccio», rispose quello, «Mi deve chiamare Presidente Incombente. Anzi mi chiami semplicemente Incombente».

Tesi inconcepibile per statisti di stampo austroungarico come Alcide de Gasperi («Le dimissioni non si preannunciano: si danno») ma piuttosto praticata da quelli di stirpe montecitoria. Più portati tuttavia, come ricordò qualche anno fa Filippo Ceccarelli, per la tattica di «quel personaggio di Achille Campanile, Celestino, ingombrante e inopportuno ospite della famiglia Gentilissimi, che gliene combinava di tutti i colori, ma al dunque concludeva ogni sua avventura con un eloquente: “E allora resto”». E, loro, restano. Restano sempre.

Restò per mesi e mesi imbullonato alla poltrona di ministro dell’Interno, tra mille polemiche, Antonio Gava, il «viceré di Napoli» che Giorgio Bocca aveva soprannominato «Don Antonio ’a Fetenzìa» e che alla fine mollò a causa di un coma diabetico al quale attribuì, per non darla vinta agli avversari, la causa del forzato abbandono: «Mi sono dimesso perché me l’ha chiesto Nostro Signore». Un sacrificio che non venne chiesto, meno male, ad Annamaria Cancellieri, messa al Viminale da Mario Monti e bombardata da richieste di dimissioni per i suoi rapporti di amicizia di lunga data con Antonino Ligresti, all’epoca coinvolto in pesanti inchieste giudiziarie. «Non mi dimetto» disse. E la mozione di sfiducia individuale con l’accusa di «favoritismi» presentata dai grillini fu respinta.

Una vittoria mancata, anni prima, da Filippo Mancuso, il ministro della Giustizia del governo Dini che per l’eloquio un po’ rococò («L’italia è una malata in forma ingravescente») si prestava alle ironie di un po’ tutti i corsivisti ed era corto un metro e 59 centimetri ma aveva resistito impavido come un gigante a tutto e tutti, come Davy Crockett a Fort Alamo finché, appunto, non era stato abbattuto da quella mozione di sfiducia dedicata a lui.

Ma come dimenticare l’accanita resistenza alle dimissioni dell’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio? Messo sotto accusa per una serie di scelte assai contestate, come il rapporto anomalo con banchieri tipo Giampiero Fiorani della Popolare di Lodi, così intimi da sfociare nel famoso «bacio in fronte» vagheggiato il giorno del via libera all’offerta pubblica su Antonveneta, il predecessore di Visco riuscì a tener duro per mesi. Malgrado le figuracce in tivù (ricordate lo spintone delle guardie del corpo a Valerio Staffelli di «Striscia» o il Gabibbo che strimpellava «Co-co-come una cozza attaccato sta/ e chi lo schioderà?») e l’ostilità di un po’ tutti a partire da Giulio Tremonti. Il quale per ricordare quelle che considerava le malefatte del governatore mostrava a tutti, sulla sua scrivania, il personale portapenne: un barattolo di pelati Cirio.

E Antonio Di Pietro? Le sue sì, quando si tolse la toga da giudice, furono dimissioni. Spettacolari. Per sette volte strillò nella lettera d’addio: «Basta. Basta. Basta. Basta. Basta. Basta. Basta». Poi: «Tolgo il disturbo e non risponderò ad alcuna provocazione. Buon futuro. Antonio Di Pietro». Finì con un post scriptum: «Prego vivamente di non propormi alcun invito al ripensamento perché le mie dimissioni sono irrevocabili, come testimonia questa mia doppia firma. Antonio Di Pietro». Repetita iuvant. Viatico perfetto per quanti si dimettono per ricominciare. E Matteo Renzi non è certo il primo.

Forse nessuno però ha resistito quanto Gianfranco Fini, incollatosi alla presidenza della Camera dopo lo scoppio devastante dello scandalo della casa a Montecarlo lasciata in eredità ad An dalla contessa Anna Maria Colleoni e finita a Giancarlo, il fratello minore della compagna Elisabetta Tulliani. Indimenticabile, tra gli insulti e gli inviti a dimettersi, respinti per quasi tre anni, il contrattacco: «Contro la mia famiglia c’è stata una campagna che ha assunto i toni di una lapidazione di tipo islamico».

Non meno indimenticabile, tuttavia, resta la cocciuta resistenza alla guida della commissione Cultura di Giancarlo Galan. Rimasto al suo posto anche dopo aver patteggiato nel processo seguito all’inchiesta sul Mose due anni e 10 mesi di galera e la confisca di oltre due milioni e mezzo di euro e addirittura dopo essere finito in carcere e poi ai domiciliari. La legge non prevedeva la rimozione forzata. E lui:«Allora resto».

Peccato che la legislatura stia avviandosi verso la fine, sennò potrebbe battere il suo record di combattività Altero Matteoli, condannato a metà settembre, sempre per lo scandalo Mose, a quattro anni di reclusione più nove milioni e mezzo di euro (abbondanti) per corruzione. Sono passati due mesi, da allora. Eppure l’ex ministro alle Infrastrutture è ancora lì, alla presidenza della commissione Lavori pubblici del Senato. Che aspetti anche lui di essere salvato, come l’inamovibile Tavecchio, da un miracoloso accordo con Carletto Ancelotti?

CORRIERE.IT

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