Calcio e non solo, la qualità perduta

Tre fallimenti fanno una prova: l’Italia del calcio è in crisi, come e forse più del Paese che rappresenta. In Sudafrica gli azzurri furono eliminati in malo modo, in Brasile pure; in Russia se non altro non andremo a fare altre brutte figure. Sovrapporre le vicende sportive a quelle generali può essere fuorviante: se il Mondiale dell’82 segnò davvero l’uscita da un periodo oscuro, quello del 2006 fu un lampo nel buio della depressione collettiva e del declino compiaciuto. Proprio ieri sono arrivati dati incoraggianti dall’Istat: l’economia si sta rimettendo in moto, sia pure più lentamente della media europea. Ma questo non ha cambiato l’umore medio degli italiani, prostrato da anni duri, senza che dallo sport nazionale venisse la consolazione di un riscatto.

La penosa serata di San Siro, e più in generale l’eclissi del calcio italiano, sono l’ennesimo indizio che nel Paese esistono almeno tre questioni aperte: il calo dell’attitudine al sacrificio; la lentezza del ricambio generazionale; e la mancanza di leadership. Sul crollo delle vocazioni calcistiche e sportive si è detto molto. Introdurre una quota di italiani in campionato — almeno tre in campo per squadra — non sarebbe una cattiva idea. Non sarà colpa degli stranieri, che contribuiscono a rendere il nostro campionato tra i più combattuti e spettacolari d’Europa; ma se i giovani di talento non vengono mai messi alla prova, è difficile che possano crescere.L’importante è che siano disposti ad allenarsi con serietà, senza montarsi la testa al primo contratto milionario; a giudicare dalle immagini tv, i più impegnati sul lavoro negli ultimi tempi sono stati i parrucchieri di El Shaarawy e Bernardeschi, oltre ovviamente ai tatuatori.

Si è detto meno sulla selezione della classe dirigente, troppo spesso basata sulla mediocrità; che non crea invidie e malumori, ma provoca un’inevitabile caduta della qualità. Non occorreva attendere la Svezia per scoprire che il duo Tavecchio&Ventura non è all’altezza della situazione, che Bonucci è un ottimo calciatore ma non ha la tenuta nervosa per essere un vero leader, che Buffon in questi anni è cresciuto molto come uomo e capitano ma da solo non può tenere una squadra, oltretutto dalla porta, quindi lontano dagli arbitri (che non possono essere un alibi, ma come in Brasile non ci hanno certo favoriti, anzi). Tavecchio aveva annunciato che avrebbe fatto la storia; è stato di parola, anche se non nel senso che sperava. Ventura ama il bel gioco ma ha commesso troppi errori: da ultimo rinunciare a Lorenzo Insigne, tra i pochi ad aver maturato un’esperienza internazionale, compreso un gol al Bernabeu.

Il problema è che i leader latitano in ogni campo, non solo in quello da calcio. E un Paese che non sa darsi una classe dirigente, se non sull’onda del populismo e del pauperismo digitali, non va lontano nell’era del mondo – e dei campionati – globali. Oggi ci sentiamo in colpa verso i nostri figli: sta crescendo una generazione che non avrà il suo Mondiale. Dopo le glorie prebelliche, eravamo abituati a una grande avventura ogni dodici anni: la storica spedizione in Messico, il trionfo spagnolo, la finale del Milan di Sacchi vestito d’azzurro, la vittoria in casa dei tedeschi (battendo in finale i francesi). Ma la storia nazionale ci insegna che non è finita finché non è davvero finita. Lo sport è la nostra infanzia, e quindi il nostro futuro. Come ha scritto Borges, «ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, ricomincia la storia del calcio»

CORRIERE.IT

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