Nei comuni vince il centrodestra: operazione tenaglia sull’ex premier Renzi

Marcello Sorgi

Dopo quelle di Roma e Torino del 2016 a favore dei 5 stelle, la sconfitta del centrosinistra a Genova (e non solo, praticamente dappertutto), stavolta a vantaggio del centrodestra, ha un valore politico e simbolico doppio. Significa che anche nel caso, verificatosi quest’anno nella tornata di amministrative che ha coinvolto quasi dieci milioni di elettori, di riflusso populista (Genova, non va dimenticato, è la città di Grillo, ciò che rende più amaro per l’ex-comico il risultato di ieri), il Pd e i suoi alleati – al contrario del resuscitato centrodestra – non rappresentano più una scelta credibile di governo, neppure se si presentano uniti, in un capoluogo storicamente legato alla sinistra e che avevano amministrato ininterrottamente per tutta l’epoca della Seconda Repubblica, anche quando l’amministrazione regionale aveva cambiato di segno. A voler adoperare un po’ di malizia, si può dire che ha funzionato perfettamente lo schema di gioco messo in campo dagli avversari di Renzi, che prevedeva di inneggiare al ritorno della coalizione post-ulivista in caso di vittoria, e scaricare tutta la responsabilità di un eventuale insuccesso sulle spalle del segretario.

Per quanto il leader possa minimizzare, valutando l’esito dei ballottaggi come un voto locale, e mettendo in luce qualche risultato in controtendenza, resta il fatto che all’indomani della sua plebiscitaria riconferma alla guida del partito, dopo la conclusione funesta del referendum del 4 dicembre e la precipitosa archiviazione nelle urne della stagione delle riforme, al primo e al secondo turno Renzi, anche se non da solo, è stato battuto, e così anche il Pd e i suoi alleati.

 

D’altra parte, mettetevi nei panni di un elettore che abbia atteso dall’anno scorso un qualche segnale di resipiscenza rispetto al suicidio calcolato e consumato a dosi regolari dal centrosinistra negli ultimi dodici mesi. Al referendum, una parte del partito, l’ex-minoranza bersanian-dalemiana che poi ha dato vita alla scissione, s’è schierata contro il governo e ha contribuito alla vittoria del «No». Poi ha chiesto il congresso, di cui, una volta ottenuto, ha proposto il rinvio; e subito dopo, capito che Renzi lo avrebbe vinto, ha preferito andarsene. Ma uscita una minoranza, se n’è subito formata un’altra, che si comporta più o meno allo stesso modo e si prepara ad allearsi con partiti e gruppi collocati a sinistra del Pd. Mentre su questo stesso terreno, l’ex-sindaco di Milano Pisapia, messosi in moto per federare l’area rissosa in cui si muove tutto l’arcobaleno dei nemici di Renzi e riportarla all’alleanza con l’ex-premier, sta finendo col mettere su un partito concorrente, che se nascerà, nascerà sulla parola d’ordine «tutto fuorché Renzi».

L’elettore di cui dicevamo ha assistito così a una singolare campagna elettorale in cui il segretario era assente e gli altri leader di sinistra suoi avversari facevano a gara a sparargli addosso e a rinnegare ogni ipotesi di recupero a livello nazionale della coalizione con cui, tuttavia, si erano presentati nelle città in cui si votava, ottenendo spesso che il candidato sindaco fosse loro espressione e il Pd si rassegnasse a fare da portatore di voti e a pagare il conto in caso di sconfitta. Ora, appunto, per quale ragione il suddetto elettore avrebbe dovuto votare per il centrosinistra, invece di astenersi, o legittimamente, come prevede il meccanismo dei ballottaggi, votare per il centrodestra per punire i campioni del suo schieramento?

 

Spiace davvero per Romano Prodi, l’uomo che per due volte riuscì nel miracolo di rimettere insieme tutti i cocci dell’alleanza e portarla alla vittoria, per poi esser giustiziato le stesse due volte, una terza come candidato alla Presidenza della Repubblica, e malgrado questo, non pago, ci riprova una quarta; spiace per il governo Gentiloni, che in questo marasma riesce pure ad affrontare i terribili problemi del Paese; spiace per tanti seri amministratori, a cominciare dai pochi sindaci che ieri hanno vinto. Ma c’è una cosa che va detta a questo punto: il centrosinistra è finito, e far finta che questo non sia accaduto, o sia ancora rimediabile, non è più possibile.

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