Come salvare il Parlamento

MICHELE AINIS

I PARTITI sono dipartiti, amen. Ultimi certificati di morte: l’elezione di Trump, nonostante l’ostilità dell’establishment repubblicano; e su quest’altra sponda dell’oceano Macron (che ha sbaragliato i partiti storici francesi con una start up nata un anno fa) o i 5 Stelle (il non partito primo in tutti i sondaggi italiani). Benvenuti al funerale, quindi. E dopo?

Dopo rischiamo d’assistere alle esequie dei Parlamenti. Giacché sta di fatto che la fortuna delle assemblee legislative coincide con quella dei partiti politici, il cui battesimo fu celebrato per l’appunto in Inghilterra, con il Reform Act del 1832. In origine, partiti di notabili; poi partiti di massa, con l’introduzione del suffragio universale; infine partiti personali, dove il faccione del leader tracima in tv. Ma in ogni caso l’astro dei partiti illumina uno specifico modello di democrazia, quella rappresentativa; e infatti la loro disgrazia adesso si riflette sulla crisi che ovunque colpisce i Parlamenti. Tanto che negli Usa il politologo Benjamin Barber suggeriva di rimpiazzarli con un congresso di sindaci, più o meno come proponeva Renzi nella prima bozza del nuovo Senato.

Tuttavia non è detto che si debba chiudere baracca. La democrazia parlamentare può ancora navigare fra i marosi del terzo millennio. Ma a patto d’imbastardirsi, di contaminarsi con elementi di democrazia diretta, d’accogliere in grembo un po’ di fantasia (o d’eresia) costituzionale. Ecco cinque suggestioni.

Primo: più forza al referendum. La nostra Carta menziona solo quello abrogativo, oltretutto tarpandogli le ali con il quorum di validità. E allora fuori il quorum, dentro il referendum propositivo, già previsto dalla Costituzione di Weimar del 1919. Dentro altresì l’iniziativa legislativa popolare vincolante, le consultazioni obbligatorie sulle grandi opere pubbliche (il modello è la legge Barnier, vigente in Francia dal 1995), varie forme di democrazia digitale, interpellando i cittadini attraverso il web. Insomma, sulle scelte pubbliche il dominio del Parlamento deve trasformarsi in condominio.

Secondo: il peso del non voto. È pari a zero, anche se ormai un elettore su due diserta le urne. Eppure nessuna assemblea legislativa può deliberare quando manchi il numero legale, quando cioè sia assente la metà più uno dei suoi membri. Eppure un Parlamento non votato è un Parlamento delegittimato. Rimedi: va a votare il 50% degli elettori? Dimezzo gli eletti, e al contempo ne riduco i poteri, per esempio vietandogli la revisione costituzionale. Dopotutto nella repubblica di Weimar scattava un seggio ogni 60 mila voti, sicché i parlamentari erano in numero variabile. Idem in Austria nel 1970. A ripetere quell’esperienza adesso, otterremmo quantomeno un risparmio di poltrone.

Terzo: due mandati e basta. Regola che in Italia vale per i sindaci o per i presidenti di regione, sulla scia del divieto introdotto dagli americani nel 1951, dopo la quarta elezione d’un uomo che pure si chiamava Roosevelt. La regola, insomma, colpisce chi riveste ruoli di governo, non i parlamentari. Giusto? No, sbagliato. Anche perché altrimenti la politica resterà il mestiere di chi non ha mestiere, come denunziò Max Weber ( La politica come professione, 1919).
Quarto: il recall. Ossia la revoca degli eletti immeritevoli, attraverso un referendum personale indetto in corso di mandato. Funziona così in Svizzera dal 1846, negli Stati Uniti dal 1903, nonché in varie altre contrade. Ne avremmo urgenza anche in Italia, dove puoi assentarti dai lavori parlamentari per un anno senza rischiare sanzioni. E dove i cambi di casacca, dall’inizio della legislatura, toccano quota 469, un record. Ma quando c’è potere, lì dev’esserci responsabilità. Alle nostre latitudini c’è viceversa impunità.

Quinto: il sorteggio. Sì, l’estrazione a sorte d’una pattuglia di parlamentari, per formare un cuscinetto tra maggioranza e opposizione. Come mostra uno studio condotto utilizzando modelli matematici e simulazioni al computer (Democrazia a sorte, 2012), ne guadagnerebbe la credibilità del Parlamento, oltre che il suo tasso d’efficienza. D’altronde la sorte – diceva Montesquieu – è al servizio del principio d’eguaglianza, lasciando a ciascuno “una ragionevole speranza di servire la Patria”. Dice: ma così rischieremmo d’inviare in Parlamento gli incapaci. E perché, ora sono tutti capaci?

REP.IT

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