I cento giorni di Trump, perché l’America potrebbe crescere di più

L’economia americana procede bene. La disoccupazione è ai minimi storici, la crescita è tra il 2 ed il 3%, l’inflazione intorno al 2% (l’obiettivo della Fed) ed i tassi di interesse hanno cominciato ad allontanarsi dal pericoloso «zero». Ovviamente tutto ciò non grazie ai primi cento giorni di Trump. A quest’ultimo si può accreditare il balzo di Wall Street; i mercati hanno brindato alle promesse di Trump di deregolamentazione e di riduzione di imposte. Come giudicare la politica economica di Trump nei suoi primi tre mesi? La parola che viene in mente per descriverla è «confusione». Lo stesso Trump ha ammesso in una intervista che fare il presidente è piu complicato di quanto pensasse.

La sua riforma del sistema sanitario (per cambiare Obamacare) è stata un fallimento. Era un progetto fatto in fretta e bocciato anche da parte del suo partito; ora l’amministrazione sta disperatamente cercando un’altra via. In campagna elettorale aveva promesso di uscire dal Nafta (l’accordo di libero scambio con Canada e Messico) ora dice che vuole «negoziare» (non si capisce bene su cosa) ma non uscire. Aveva promesso una guerra commerciale con la Cina che (per fortuna) ora sembra accantonata per motivi di politica estera. Il muro con il Messico pare non si faccia più, non ci sono i soldi nel bilancio e il Messico (che sorpresa!) non vuole pagare. La politica contro gli immigrati da molti Paesi «a rischio» è stata ripetutamente bocciata da vari giudici federali. L’altro ieri Trump ha proposto un taglio delle aliquote sul reddito riducendo gli scaglioni a tre, (10, 25, e 35%) e cancellando qualche detrazione, ma non quella degli interessi sui mutui edilizi. Invece quest’ultima va eliminata perché favorisce un eccessivo indebitamento per case, che tra l’altro, contribuì alla crisi del «subprime». I mercati hanno accolto non bene la proposta fiscale: stavano correndo e all’annuncio sono scesi, sembrerebbe per i pochi dettagli forniti sulla riforma e per un senso di approssimazione nell’operato di governo. Il sistema fiscale americano va riformato. È troppo complicato, ingiusto e pieno di «favori» a questo o quel settore dell’economia (le cosiddette «tax expenditures») e con una infinità di possibili elusioni.

La proposta di Trump va vagamente nella direzione giusta (riduzioni di aliquote e ampliamento della base imponibile) e dovrebbe rimanere una larga fascia di meno abbienti esenti dalle imposte. Non è chiaro però come il presidente Usa intenda evitare l’elusione fiscale dei super ricchi che spesso finiscono per pagare proporzionalmente meno delle classi medio-alte. Soprattutto Trump non ha spiegato chiaramente come intenda finanziare questa riduzione di imposte, cioè con quali tagli di spesa, come subito ha fatto notare il «Committee for a Responsible Budget», uno stimato gruppo bipartisan che giudica l’operato fiscale delle amministrazioni. Si percepisce il messaggio che questi tagli di imposte si autofinanzierebbero da soli con gli aumenti di gettito dovuti alla maggiore crescita. «Voodoo economics», come la definì tempo fa in un’altra occasione il mio collega (repubblicano) Greg Mankiw. Riduzioni di imposte stimoleranno sì la crescita ma aumenteranno il deficit. Trump deve dirci come poi lo ridurrà. Con altri aumenti di imposte visto che non parla di tagli di spesa per pensioni e sanità, i due capitoli chiave del bilancio Usa? Non solo, la spesa militare pare in forte crescita e qualche spesa in infrastrutture parrebbe necessaria. Una riforma fiscale serve, più debito no. Quindi confusione e poca chiarezza anche sul bilancio. Insomma la politica economica di Trump (e non solo quella) pare approssimativa. Il nuovo presidente non sembra capire come funzionino i «checks and balances» tra presidenza, ministri, Congresso e giudici federali. Si comporta come se fosse il Ceo degli Stati Uniti, non il suo presidente, forse per una deformazione professionale. Ma ciò crea confusione, e l’incertezza non fa mai bene all’economia.

CORRIERE.IT

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