La democrazia in crisi e il diritto alla Resistenza

di EZIO MAURO

Mentre la febbre della democrazia malata contagia tutto l’Occidente, dalla Francia alla Brexit, dall’Europa di mezzo a Trump, c’è un Paese dove il sistema politico sembra galleggiare sull’onda bassa della rassegnazione, come se il suo destino conclamato fosse ormai quello di finire spiaggiato insieme con le balene che hanno smarrito la rotta: è naturalmente l’Italia. Il meccanismo istituzionale vivacchia, a debole intermittenza, salvando la forma ma rendendo impalpabile la sostanza. Il sistema dei partiti sembra esausto non solo dal punto di vista ideale e progettuale ma persino sul piano tattico, e la miseria della legge elettorale impossibile diventa la prova del nove di un’impotenza quasi dichiarata, come un vecchio pugile che getta la spugna davanti agli spalti che ribollono, perché gli spettatori vogliono indietro il prezzo del biglietto.

La cifra politica complessiva è la più debole degli ultimi decenni. Mancano insieme le grandi figure dotate di personalità e leadership, una battaglia delle idee in grado di dare un orizzonte culturale al confronto politico, la capacità di modernizzare le identità di destra e di sinistra che storicamente hanno incarnato il profilo della democrazia parlamentare, salvando la loro anima antica e portandola a incrociare i nuovi bisogni e a rispondere alle ultime paure. Soprattutto, e proprio per queste ragioni, si è rotto il vaso comune della rappresentanza. Pezzi interi di società si sentono scartati da un sistema politico che non sa rispondere alle emergenze quotidiane della loro vita, il sentimento di esclusione vanifica gli stessi diritti costituzionali, fino a generare il dubbio capitale sulla democrazia stessa: se vale solo per gli inclusi, i rappresentati, i tutelati, allora viene meno il suo valore supremo di garanzia universale per tutti i cittadini.

Il deficit culturale del sistema ha prodotto un minimo comun denominatore di scarso significato, con destra e sinistra che sono scivolate sui loro piani inclinati verso il centro, in un indistinto democratico dove si smarriscono le distinzioni e crescono le confusioni, favorendo un mimetismo gregario che si ripara sotto il pensiero dominante, incapace di pensare in proprio. Con il risultato di non saper più fornire al cittadino opzioni identitarie in cui riconoscersi liberamente dopo la fine delle ideologie e lo smarrimento di ogni sentire comune. Ma soprattutto con la conseguenza di non riuscire a proporre una critica organizzata al pensiero unico, un’obiezione culturale, un’alternativa di idee, lasciando così crescere il pregiudizio secondo cui l’unica alternativa possibile è fuori dal sistema.

E qui, infatti, ingrassa la rendita opportunista di chi di fronte alla crisi generale non ha nulla da proporre, ma ha molto da speculare. La miseria culturale investe infatti in pieno anche le opposizioni, che mentre non distinguono tra Cile e Venezuela quasi rivendicano in proprio, e coi loro cantori, l’ignoranza come prova di estraneità al sistema, e in quanto tale garanzia automatica di alterità, dunque patente perfetta di innocenza. Tutto questo tra gli omaggi e le riverenze che parte della classe dirigente, della Chiesa e della stessa sinistra sta riversando con consigli e blandizie sui grillini in crescita, quasi fornendo loro dall’esterno un profilo intellettuale che in tutti questi anni non sono riusciti a costruirsi dall’interno: in un’operazione del tutto artificiale che vuole coprire non tanto un deficit del movimento, quanto un deficit di autonomia di quei corpi sociali pronti a cercare lo scambio perpetuo con qualsiasi nuovo potere. A conferma che il cosiddetto establishment è parte della crisi di sistema, non della sua soluzione.

Ma tutto questo è inevitabile? Qualcuno dovrà pur riflettere sul caso francese, dove un profilo di competenza e responsabilità apertamente riformista e europeista, senza ridicole imitazioni populiste, ha prevalso sul nazionalismo lepenista. E qualcun altro dovrà pur ricordare che l’Italia ha vissuto momenti molto più difficili – il primo dopoguerra, la sfida delle Brigate Rosse, la stagione delle stragi impunite – senza smarrire il filo di una democrazia largamente imperfetta, ma condivisa: e quando Sciascia disse che “lo Stato è un guscio vuoto” una larga parte della sinistra scelse di difendere la fragilità estranea e lontana di quel guscio, anche per difendere la possibilità di poterlo un giorno cambiare.

È dunque in buona misura un’ipnosi collettiva quella che ci consegna oggi a questa deriva come se fosse un fato in cui una cattiva politica rischia di lasciare il posto all’antipolitica, premiata non perché è buona, ma perché è contro. Si capisce perfettamente lo smarrimento del cittadino di fronte alla perdita di significato della politica, che rende significanti gli slogan al posto dei pensieri, i fake, le battute, le invettive, trasformando l’atto politico in gesto, riducendolo a pura performance. Si comprende anche la rabbia per la scarsa efficienza del sistema, la ribellione davanti alla corruzione che si mangia lo Stato, il rifiuto degli scandali del potere. Ma questo risentimento futurista, profondamente di destra, che fa quotidianamente l’elogio del caos sperando di ereditarlo mentre dipinge un Paese marcio che può solo arrendersi agli invasori, è il contrario del sentimento liberal-democratico che governa il sistema politico occidentale nella buona e nella cattiva sorte: sapendo che siamo testimoni imperfetti e gestori infedeli di un sistema di valori e di istituzioni, che tuttavia abbiamo creato noi, come modello di riferimento comune e di garanzia reciproca per il nostro vivere insieme. Anzi, quel meccanismo democratico lo abbiamo creato da sobri, perché funzioni e ci tuteli anche quando siamo ubriachi, come sembra oggi dal nostro barcollare sovreccitato, incerto e senza meta.

Il primo dovere per non arrendersi alla deriva, dunque, è quello di esercitare il diritto alla distinzione, fondamento di ogni pensiero democratico, rifiutando di fare di ogni erba un fascio accettando giudizi sommari, antidemocratici per definizione. Distinguere tra la buona e la cattiva politica, intanto, senza gettare tutto al macero nell’attesa del Redentore. Credere nella possibilità di correggere le politiche sbagliate – denunciando gli errori e i loro autori – invece di credere nell’avvento del Vendicatore. Confidare nel parlamento come luogo di composizione e risoluzione democratica dei conflitti, e non nella piazza come luogo di spettacolarizzazione conflittuale del confronto parlamentare. Preferire il voto al pollice verso del populismo. E soprattutto, distinguere le istituzioni permanenti dalla politica contingente, cercando di preservarle dal gioco al massacro perché nel disegno voluto dalla Costituzione resti qualcosa di “sacro” in cui riconoscersi laicamente, quando si incontrano lo Stato e la democrazia rappresentativa. Non a caso in Assemblea Costituente Benedetto Croce (dopo aver denunciato il “dispregio e il vituperio versati sull’Italia”) invitò tutti a intonare il “Veni Creator Spiritus “.

Nel nostro Paese tutto questo dovrebbe avere un significato in più. Le istituzioni che rendono possibile e arbitrano il libero gioco politico, infatti, da noi non sono una costruzione artificiale o un prodotto d’importazione ma il frutto di quel poco o di quel tanto di ribellione autonoma alla vergogna del ventennio fascista. Ribellione parziale ma indispensabile e sufficiente per rendere la nostra democrazia non “octroyée” dagli Alleati che hanno sconfitto il nazifascismo, ma in qualche misura riconquistata da cattolici, laici, comunisti, monarchici: e naturalmente dalla Brigata Ebraica, coi suoi caduti e la sua bandiera. Questa è la vera fonte di legittimazione della democrazia repubblicana, la scelta di “resistenza” alla dittatura, principio ispiratore della Costituzione e delle libere istituzioni che hanno dato forma ai principi costituzionali. Per evitare di lasciar travolgere tutto, dovremmo ricordarcene. E non solo il 25 aprile.

REP.IT

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