Archive for the ‘Esteri’ Category

Guerra Ucraina-Russia, le notizie di oggi | Diga vicino a Kherson distrutta dalle forze russe. Mosca nega e incolpa l’esercito ucraino

martedì, Giugno 6th, 2023

di Andrea Nicastro, inviato, e redazione Online

Le notizie sulla guerra di martedì 6 giugno, in diretta. L’esercito ucraino ha dichiarato che le forze di occupazione russe hanno fatto saltare in aria la diga della centrale idroelettrica di Kakhovskaya, a monte del Dnepr, nell’area di Khershon, e dal bacino è iniziata la fuoriuscita incontrollata di acqua. Mosca incolpa Kiev dell’esplosione

Guerra Ucraina-Russia, le notizie di oggi | Diga vicino a Kherson distrutta dalle forze russe. Mosca nega e incolpa l’esercito ucraino

• Il governatore russo: «Combattimenti a Belgorod».
• Danilov: «Trattare con Putin? Mai: non potete costringerci a negoziare con Satana».
• Il fronte adesso è in Russia, Putin: «Vogliono destabilizzare il Paese».
• Putin dona alla Chiesa l’«Icona della Trinità» di Rublev: i musei protestano.

Ore 08:55 – Michel: «L’attacco alla diga è un crimine di guerra»

«Sono sconvolto dall’attacco senza precedenti della diga Nova Kakhovka. La distruzione delle infrastrutture civili si qualifica chiaramente come un crimine di guerra, e faremo in modo che la Russia e i suoi alleati ne paghino le conseguenze». Così via Twitter il presidente del Consiglio Ue Charles Michel. «Solleverò la questione a giugno al Consiglio Ue e proporrò maggiore assistenza alle aree allagate. Il mio pensiero va a tutte le famiglie in Ucraina colpite da questa catastrofe», prosegue Michel.

Ore 08:47 – Kiev: «Esplosioni nella capitale durante la notte»

Esplosioni sono state udite a Kiev la notte scorsa: lo ha reso noto su Telegram il sindaco della capitale ucraina, Vitalii Klitschko.

Ore 08:33 – Kuleba: «Distruzione diga è un crimine orribile»

«La distruzione da parte dei russi della diga di Kakhova è probabilmente il più grande disastro tecnologico degli ultimi decenni in Europa e mette migliaia di civili a rischio». È quanto scrive su Twitter il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, sottolineando che questo è «un crimine orribile: l’unico modo per fermare la Russia, il più grande terrorista del 21esimo secolo, è cacciarla dall’Ucraina».

Ore 08:23 – Kiev: «16000 persone in zona critica, evacuazione in corso»

A causa dell’esplosione della centrale idroelettrica di Kakhovska, 16.000 persone si trovano in una «zona critica» sulla riva destra del fiume Dnipro ed è in corso un’evacuazione: lo ha affermato su Telethon il capo del dipartimento di polizia di Kherson, Alexander Prokudin, come riporta Rbc-Ucraina.

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Ucraina, Fabbri gela tutti: “Territori sconosciuti”. Controffensiva e incubo nucleare

lunedì, Giugno 5th, 2023

La controffensiva ucraina “è già iniziata” e, dato sorprendente, non si sta concentrando nelle zone contese del Donbass ma punta direttamente nel territorio russo. Dario Fabbri analizza così la situazione inedita della guerra in Ucraina, con raid e incursioni continue nell’oblast di Belgorod, in Russia, da parte delle forze di Kiev e da gruppi anti-Putin. Il direttore di Domino è intervenuto lunedì 5 giugno ad Agorà, il programma d iRai3, e non ha nascosto le preoccupazioni per un risvolto bellico che nessuno aveva preventivato. L’operazione, spiega Fabbri, ha l’obiettivo di “minare la centralità e la stabilità di Putin”. Tra gli scenari c’è quello di portare la guerra sul suolo russo. Insomma, siamo in una fase di “territori non tracciati, come dicono gli americani, non si conoscono gli sviluppi possibili perché mai accaduto prima” afferma l’esperto di geopolitica che sottolinea come torni d’attualità in queste ore il possibile uso delle armi nucleari tattiche da parte della Russia.

A Belgorod sono in corso scontri e veri e propri tentativi di invasione, mentre gruppi di cosiddetti partigiani russi anti-Putin hanno preso prigionieri. Kiev non rivendica ufficialmente queste azioni. “Lo lasciano intendere esplicitamente, se lo facessero apertamente sarebbe come dire ai russi come sarà la controffensiva” che per Fabbri è già iniziata. Gli ucraini devono lasciare però “una patina di ambiguità, per confondere i russi” dare la possibilità agli americani di dire che non c’entrano niente con gli attacchi sul suolo russo.

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Danilov: «Trattare con Putin? Mai: non potete costringerci a negoziare con Satana»

domenica, Giugno 4th, 2023

di Andrea Nicastro

Il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale ucraino: «La guerra nucleare? La bomba atomica vada a farsi fottere. Moli russi passeggiano ancora per Venezia, Firenze, Roma. E la posizione della Chiesa è strana»

Danilov: «Trattare con Putin? Mai: non potete costringerci a negoziare con Satana»

DAL NOSTRO INVIATO
KIEV — Oleksiy Danilov, segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale ucraino, è uno degli uomini più duri che guidano il Paese. In questa intervista non si trattiene: parolacce contro Putin, dito medio alla minaccia atomica e nessuna concessione ad un risultato finale che non sia la vittoria. Se la prende con la Chiesa, con «quei cardinali che attraverso il Papa vogliono influenzarci» e con gli occidentali «che ancora fanno affari con Mosca, che mettono il denaro davanti alla vita e alla libertà». «Non fosse per noi — dice — a quest’ora il nuovo Hitler che si chiama Putin sarebbe arrivato a Varsavia».

Danilov, lei ha le stesse informazioni militari del presidente Zelensky e del capo di Stato Maggiore Zaluzhny. Siete voi a decidere. Perché l’annunciata controffensiva non parte?
«Stamattina abbiamo tenuto l’83esima riunione del Consiglio di difesa dall’inizio dell’invasione. Chi è fuori da questo gruppo non può fissare date, fare ipotesi, annunci. Siamo noi, con calma, a scegliere che fare».

Ma proprio voi avete annunciato la controffensiva.
«Sbagliato, noi non diamo appuntamenti al nemico. Noi siamo pronti, questo sì, ma agiremo nel momento migliore».

Quali dovranno essere le condizioni?
«Le posso dire la strategia: liberare i territori occupati e tornare ai confini del 1991. La tattica si aggiusta di volta in volta».

E perché adesso siete pronti al contrattacco?
«Perché dal 24 febbraio del 2022 ad oggi è cambiato tutto. La maggior parte del mondo ha capito che la Russia non ha il secondo esercito del pianeta, non fa neppure parte della società civile e ha un presidente che ordina di uccidere i bambini. Cinquecento bambini. Vinceremo e lo porteremo ad un tribunale per crimini di guerra».

Totale riconquista e Putin in tribunale. Non crede sia più saggio trattare?
«Volete che ci arrendiamo? So che ci sono politici italiani che continuano a dialogare col diavolo di oggi, Putin. Piuttosto dite pubblicamente che lo sostenete. In Italia avete anche la strana posizione della Chiesa. Che Chiesa è quella che preferisce gli assassini di bambini? Se la Chiesa ritiene giusto accettare le condizioni di Satana, allora capisco, ma non credo».

Lei conosce già l’obiezione: negoziando si evitano altri morti.
«Stop. La gente ha paura a dare il giusto nome alle cose e perde il senso della realtà. Voi lo chiamate Putin, ma il suo nome è Satana. Se uno porta il crocefisso al collo va a benedire il diavolo? Quali leggi divine permettono di uccidere i bambini? Noi non vogliamo il russifascismo perché abbiamo imparato la lezione della storia. Non dovete spingerci o insistere. Devono ritirarsi e basta. Questa è casa nostra».

Anche a costo di migliaia di vite? Anche con l’atomica?
«La Bomba vada a farsi fottere. Se dovessimo spaventarci, vorrebbe dire che solo i Paesi con l’atomica possono difendersi. E’ questo che volete? Noi no, non ci pieghiamo».

Meglio i 60 milioni di morti della seconda Guerra Mondiale?
«Qui sta l’errore. L’1 settembre 1939 Hitler ha invaso la Polonia. Andava fermato allora, ma tutti hanno avuto paura. Il 24 febbraio 2022 è successo lo stesso solo che il nuovo Hitler ha trovato davanti noi. E invece di occupare l’Ucraina in tre giorni, è stato fermato e perderà. Potete aiutarci? Fatelo».

L’Occidente non fa abbastanza?
«Tanti amici ci aiutano, compresa l’Italia, che noi ringraziamo infinitamente, ma si può fare di più».

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India, scontro fra tre treni: centinaia di morti e quasi mille feriti

sabato, Giugno 3rd, 2023

di Paolo Foschi

Due dei convogli erano adibiti al trasporto passeggeri. La tragedia nei pressi di Balasore, nello stato di Odisha

India, scontro fra tre treni: centinaia di morti e quasi mille feriti

Almeno 288 morti accertati e un migliaio di feriti: è questo il bilancio ancora provvisorio di un disastro ferroviario che ha coinvolto tre treni, due dei quali passeggeri, nell’India orientale. Nelle immagini trasmesse dai canali televisivi si vedono scompartimenti strappati, pile di metallo contorto e decine di passeggeri distesi accanto ai binari sulla scena della tragedia, vicino a Balasore, a circa 200 chilometri da Bhubaneswar, la capitale dello stato di Odisha.

All’alba, la luce ha rivelato l’orrore di uno degli incidenti ferroviari più gravi mai registrati in India: nello Stato di Odisha, un treno passeggeri ha deragliato ed ha investito altri due treni, uno passeggeri e uno merci. Il bilancio è pesantissimo anche per un Paese abituato agli incidenti ferroviari; e richiama i problemi di sicurezza di un sistema che trasporta 8 miliardi di persone all’anno, praticamente l’equivalente della popolazione mondiale.

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Kosovo ponte dell’odio, la città di Mitrovica è simbolo delle divisioni

venerdì, Giugno 2nd, 2023

dalla nostra inviata Letizia Tortello

KOSOVSKA MITROVICA. Per Milos Petrovic, 36 anni, il mondo «a Sud» finisce lì. In piazza Fratelli Milic a Kosovska Mitrovica, Nord del Kosovo, il «Muro di Berlino» che divide simbolicamente il Paese in due. Milos è alto un metro e novanta e ha il piglio guardingo. Controlla se ci sono infiltrati. Anche se un confine tra serbi e albanesi non c’è, chi si permette di varcare la linea simbolica dell’odio, in questa mattina di manifestazioni contrapposte, serbi del nord e albanesi del sud della stessa città, rischia grosso. Milos ha 36 anni, è seduto su un muretto dipinto coi colori della Serbia, sotto il monumento che ricorderà per sempre come eroi Srdjan and Boban Milic, due membri del Corpo d’Armata jugoslavo di Pristina, uccisi dalla Nato in un bombardamento nel ’99.

Sono le 12 e la piazza di Mitrovica Nord si riempie di gente. Serbi per lo più uomini e giovani. Come allo stadio, l’atmosfera ribolle. Nessuno di loro è lì per caso. È un raduno, anche se i militari della Kfor sono ovunque, quindi non è bene darlo a vedere. Milos guarda fisso dall’altra parte del ponte che lacera Mitrovica, su Telegram arrivano video e notifiche e le fake news si mescolano alla suggestione: «Gli albanesi si stanno muovendo, vogliono venire qui», si dice. A 150 metri di distanza oltre le arcate in cemento sul fiume Ibar, un centinaio di persone è sceso in strada, per farsi vedere e sentire. «Questo è il nostro Stato», urlano dei ragazzini albanesi. Spuntano al collo bandiere dell’Uck, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, simboli che sono fumo negli occhi per i coetanei al di là della passerella.

Per Endrit Hoxha, 22 anni, muscoli scolpiti che escono dalla maglietta nera, il mondo «a Nord» finisce lì. In un microcosmo di rivendicazioni tra etnie di una terra che non ha pace e convivenza, anche se il Kosovo si è reso indipendente dalla Serbia nel 2008, ma c’è ancora qualche capitale tipo Belgrado che non lo riconosce. Endrit è con gli amici all’ombra della statua di Isa Boletini, eroe albanese. «Se sono mai andato a Mitrovica Nord? Sì, qualche volta. Ma non mi interessa vedere quella gente, la peggior gente del mondo, i serbi», dice con rabbia. È arrivato da un villaggio vicino per sostenere la polizia kosovara. «Se non gli sta bene vivere lì, tornino da Vucic! – aggiunge, concitato –. Questo Stato è nostro, questo Stato è albanese! Dai Dardani, dagli Illiri, queste terre sono nostre. E anche Montenegro, Macedonia, anche la Grecia, se andiamo indietro. I serbi vedono una cosa e pensano che sia tutto loro».

Le camionette dei carabinieri presidiano il ponte di Mitrovica giorno e notte, ma in questo momento l’allerta è ai massimi livelli, dopo gli scontri di lunedì a Zvecan, tra serbi e militari della Nato, dove sono rimasti feriti 11 alpini e circa 50 persone tra soldati e civili. È un venerdì di festa al Sud, il “giorno dei bambini”, e si montano palchi per l’evento serale. Ma nessuno sa se il concerto si farà. Mai si era vista tanta tensione. «Questa è la nostra normalità. I serbi vogliono sfidare la nostra pazienza, se partono le molotov come l’altro giorno, scoppia la guerra». Al Nord, il racconto è l’esatto opposto. Si dice che due albanesi abbiano osato attraversare il ponte: «Hanno iniziato a provocare e sono stati picchiati», spiega Peter. È quasi la stessa generazione di Endrit, ma trovare chi abbia amici dalle due parti, a Kosovska Mitrovica, è molto raro.

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Kosovo, nei villaggi degli scontri: «Noi in incognito tra i serbi»

giovedì, Giugno 1st, 2023

di Marco Imarisio

Nelle comunità rurali dove vive la minoranza nel Nord del Paese: «Qui parlare albanese è pericoloso». Il futuro dei sindaci contestati

Kosovo, nei villaggi degli scontri: «Noi in incognito tra i serbi»
La bandiera serba srotolata sulla strada di Zvecan (foto Ap)

DAL NOSTRO INVIATO
ZVECAN — Ogni mattina Fehmi Mehmeti si sveglia e sa che la prima cosa che dovrà fare è fingere di non essere sé stesso. Scende in cortile, svita la targa della Repubblica popolare del Kosovo dal suo camioncino da muratore, la sostituisce con una fasulla della Serbia, e solo allora si sente pronto per fare la spesa a Zvecan e poi raggiungere il cantiere poco distante dove è impiegato. Al ritorno, si ferma sempre sul ciglio della strada a ripetete l’operazione, sotto gli occhi comprensivi dei soldati della Nato.

Abita a Lipa, un villaggio immerso tra i boschi dove non c’è nulla, se non ottanta dei cinquecento albanesi che vivono circondati dall’ostilità di sedicimila «compatrioti» di etnia serba. Nella municipalità con il primato delle proteste più violente contro uno Stato che non viene riconosciuto come tale dalla maggioranza degli abitanti di quest’area. «In teoria questa terra è casa mia, ma è come se fossi all’estero», dice Fahmi, che ha moglie, un figlio di tre anni e sogna di andarsene un giorno, da questo lembo di terra così estremo, dove esiste solo l’economia sommersa e la povertà è l’unica cosa in comune tra i due gruppi etnici che la abitano. «I serbi con cui lavoro si lamentano sempre del destino. Io invece penso che non ci sia nulla di peggio che essere kosovaro-albanese e avere in sorte di vivere in mezzo a loro».

Il fiume

Quando arrivando da Pristina si supera il fiume Ibar, cambia tutto. Non solo le bandiere esposte fuori da case e negozi, che dall’aquila rossa dell’Albania passano a quella bicefala su sfondo tricolore della Serbia. A sud come a nord, sono davvero pochi gli stendardi blu del Kosovo. Anche questa assenza non è un dettaglio da poco. Ma attraversare quel ponte significa passare dall’euro del Kosovo al dinaro serbo, la moneta con la quale viene pagato Fehmi. Significa passare dalla lingua albanese al serbo, veder circolare solo auto con targa serba rilasciate da Belgrado. Quando il governo di Pristina ha cercato di mettere mano a questa anomalia, minacciando multe, è scoppiata una mezza rivolta. Ci hanno messo una pezza in senso non solo figurato, con un adesivo bianco che nasconde la sigla KS, ricordo della Jugoslavia che fu.

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La polveriera balcanica, nuovo fronte della guerra in Europa

martedì, Maggio 30th, 2023

DOMENICO QUIRICO

Mai dimenticare le guerre, soprattutto quelle che abbiamo venduto come “umanitarie”, giustissime, sacrosante. I Balcani per esempio, il Kosovo. Tutto archiviato per noi. Anche se il Kosovo non è riconosciuto da un gran numero di Stati, se ci sono sul terreno ancora le forze di interposizione Nato, se i conti da saldare tra serbi e albanesi in realtà sono tanti. Le guerre, queste guerre che trasudano impuntature etniche e vendette antiche, non hanno mai fretta di tornare a far parte del passato. Noi, invece, dimentichiamo volentieri “i dettagli”, o almeno quello che vogliamo siano tali. Abbiamo fretta di passare ad altro. Suvvia: il Kosovo non è stata una operazione riuscita della Nato? L’alleanza non ha ben altro di cui occuparsi in questo momento che le piccole truci stagioni balcaniche? È il genere di parole, queste, con cui noi impacchettiamo ciò che non sappiamo risolvere fino in fondo. Mantenere lo status quo, congelare risentimenti faziosi e voglia di rivincite: ecco la linea che abbiamo adottato in questa parte complicata e furente del mondo. Ma la sua efficacia, purtroppo, si stinge con il passare del tempo.

Infatti un giorno, nel novembre scorso, il dettaglio maledetto si presenta sotto forma di oggetti banali, le targhe delle automobili e i documenti di identità kosovari; il governo di Pristina esige vengano riconosciuti da Belgrado, campo semantico minato. Ecco tutto comincia così: un dettaglio che cigola, poi si aggiunge dentello dopo dentello, protesta dopo protesta, qualche “dettaglio” più esplosivo: per esempio il fatto che contrariamente agli accordi i kosovari non hanno dato vita alle Comunità municipali previste dagli accordi nella zona Nord dove sono maggioritari i serbi. I sindaci si dimettono per protesta. Si comincia a sentire odore di rivolta e di polvere. E poi ancora una “provocazione”: nelle zone serbe per controllare la rivolta il governo di Pristina spedisce contingenti di polizia speciale kosovara. I serbi che non riconoscono l’indipendenza proclamata nel 2008, legati come sono a Belgrado e al sogno di un ritorno alla madre patria perduta, denunciano “la repressione”.

Segnali dal sapore asprigno, scricchiolii, la pentola della crisi comincia a bollire: ma nessuno ci bada in Europa e oltre Atlantico, c’è l’Ucraina in fiamme, bisogna aiutare gli ucraini a fermare l’invasione putiniana. Intanto tra le montagne kosovare la temperatura tra le due comunità torna a livelli da altoforno: I serbi boicottano le elezioni amministrative di aprile e cercano di impedire agli eletti kosovari, che definiscono illegittimi, di insediarsi con la scorta della polizia nei comuni del boicottaggio. Non hanno torto visto che gli elettori sono stati una minuscola minoranza, 1.500 su 45 mila iscritti al voto. Arrivano i blindati da Pristina, gli scontri per strada si accendono, auto vanno in fumo, lacrimogeni e armi spianate, feriti. Fino agli incidenti di ieri, con gli italiani feriti mentre cercano di interporsi, di fermare i manifestanti.

Intanto la Serbia mette l’esercito in stato di all’erta, spedisce truppe al confine come avviene ogni volta che la tensione cresce, chiede al contingente Nato di proteggere i 120 mila serbi (su una popolazione di quasi due milioni) o altrimenti provvederà da sola. La Serbia tradizionale, storica sponda della Russia nei Balcani, il fratello slavo a cui Putin non vede l’ora di offrire appoggio aprendo un fronte meridionale nella nuova guerra europea e mondiale. Moltiplicare i fronti: una tattica perfetta per il Cremlino che deve ricambiare l’usura che gli occidentali gli impongono con la disinvolta guerra per procura in Ucraina.

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I sabotatori russi che fanno tremare il Cremlino: “Il dittatore Putin va sconfitto in guerra, agiremo fino al crollo del regime”

lunedì, Maggio 29th, 2023

Letizia Tortello

La voce è mascherata, così come i volti. Rilasciano un’intervista esclusiva a La Stampa, per raccontare i loro obiettivi, dopo la conferenza stampa dei giorni scorsi: «Il regime di Mosca deve cadere, Putin è un dittatore e dev’essere sconfitto sul campo». Sono i sabotatori russi che fanno tremare il Cremlino. Loro si danno il titolo di “partigiani”. L’azione più incisiva lo scorso 22 maggio, quando sono entrati nel territorio della regione russa di Belgorod, dall’Ucraina. Ma le incursioni non sono finite, dicono. L’organizzazione è estesa tanto da moltiplicare le operazioni.

Chi siete? Siete russi? Da dove venite? Avete una formazione militare? Avevate mai combattuto prima d’ora?
«Siamo partigiani russi di una cellula della rete che opera nelle regioni di confine tra Russia e Ucraina. È una rete abbastanza ampia. Siamo gente comune, molti di noi hanno alle spalle il servizio militare (la leva obbligatoria, ndr), ma nessuno ha fatto il mercenario prima d’ora. Tra noi, ci sono persone con esperienza di combattimento, ma non sono tanti. Quelli già formati condividono la loro esperienza con gli altri di noi, ci addestriamo nella pratica. Non eravamo soldati prima».

Perché volete la fine del regime di Putin?
«La nostra cellula si è formata a partire da un insieme di persone che erano contro il regime di Putin già prima della guerra su vasta scala. Ciascuno di noi ha i propri conti da saldare con questo regime. Ci sono persone di opinioni diverse, siamo per lo più di destra, ma tra noi ci sono anche liberali. Le opposizioni di ogni tipo in Russia sono state azzerate. Non possiamo più esprimere la nostra opinione in alcun modo, perché il dissenso è perseguibile per legge. E così, invece di protestare pacificamente, cosa che non ha portato ad alcun risultato, abbiamo deciso di imbracciare le armi. Questa è la ragione per cui siamo qui e combattiamo. Poi, molti di noi hanno anche parenti in Ucraina, il che aggiunge anche un’altra motivazione. Potremmo raccontare molto delle ragioni che ci spingono, ma in generale abbiamo un grande obiettivo: il rovesciamento del regime. E come lo vediamo noi, deve avvenire attraverso la sconfitta in guerra di Putin».

Qual è il vostro messaggio per Vladimir Putin?
«Putin per noi è un “cechista” (agente della Ceka, la polizia segreta nell’Urss, ndr) separato dalla realtà, è un dittatore. E noi capiamo bene che non ha senso trasmettergli alcun messaggio: non lo leggerà, non lo ascolterà. Quindi, gli trasmettiamo qualcos’altro, capirà bene la nostra posizione con le nostre azioni».

Fino a che punto siete disposti a spingervi? I sabotaggi nelle regioni russe continueranno?
«Certamente! Fino a che punto siamo disposti ad arrivare dipenderà dalle risorse che avremo a disposizione. Per ora, non ne abbiamo moltissime, ma siamo riusciti a fare deragliare un treno, abbiamo distrutto una decina di binari ferroviari e spero che continueremo col sabotaggio dei treni. Abbiamo anche fatto saltare alcune sottostazioni elettriche e diversi uffici di registrazione e arruolamento militare. Il nostro lavoro va avanti».

Cosa avete pensato quando la Russia ha invaso l’Ucraina?
«All’inizio, ovviamente, siamo rimasti choccati. Non era possibile che ciò potesse accadere, e molti di noi sono usciti per protestare con cartelli «No alla guerra». Ma non sono stati “coronati dal successo”, diciamo così. Essì, molti di noi, anzi quasi tutti, sono stati puniti con sanzioni amministrative, multe, qualcuno ha ricevuto anche denunce penali. E allora ci è parso chiaro che fosse necessario passare dalle parole ai fatti, cosa che è accaduta, come potete vedere».

Secondo voi, quanto durerà la guerra?
«È difficile da prevedere questo. Ad essere onesti, abbiamo l’impressione che la guerra potrebbe trascinarsi a lungo, perché la riserva di mobilitazione in Russia è ampia e non abbiamo speranza di poter aizzare il popolo alla rivolta. Il nostro popolo russo è abbastanza inerte su questo fronte, nessuno si preoccupa particolarmente per ciò che sta accadendo a livello di politica internazionale».

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“Centinaia di tedeschi devono lasciare la Russia”. Alta tensione Berlino-Mosca

sabato, Maggio 27th, 2023

Federico Giuliani

Cresce sempre di più la crisi diplomatica tra Germania e Russia. Diverse centinaia di funzionari tedeschi, come diplomatici, insegnanti e pure impiegati del Goethe Institute, devono lasciare il territorio russo. Il motivo è dettato dalla riduzione del personale russo in terra tedesca, che ha spinto Mosca ad introdurre un conseguente limite massimo per il numero del personale tedesco presso le missioni diplomatiche e le organizzazioni intermedie di Berlino all’ombra del Cremlino.

Il limite imposto da Mosca

Secondo quanto riportato da Suddeutsche Zeitung, Mosca avrebbe dichiarato una guerra diplomatica, con l’imposizione di un nuovo limite massimo del personale teutonico in Russia. I media tedeschi ritengono che questa potrebbe non essere la fine dell’escalation diplomatica russa, e che in futuro potrebbero arrivare ulteriori decisioni. Ricordiamo che Mosca ha ridotto a 350 il numero del personale delle istituzioni tedesche all’interno del suo Paese.

Da quanto emerso, a partire dall’inizio di giugno ci sarebbe un limite, imposto dal Cremlino, che regolerebbe la presenza dei rappresentanti della Germania in Russia. “Questo limite fissato richiede un taglio importante in tutte le aree della nostra presenza in Russia”, ha spiegato il ministero degli Esteri tedesco.

Ad essere colpiti dal nuovo provvedimento saranno i diplomatici, ma soprattutto i mediatori culturali, come gli insegnanti della scuola tedesca di Mosca e un numero considerevole di impiegati del Goethe Institute.

Tensione tra Germania e Russia

“Di fronte a questa decisione unilaterale, ingiustificata e incomprensibile, il governo federale si preoccupa ora di garantire una presenza minima dei mediatori in Russia mantenendo al contempo la presenza diplomatica”, ha scritto sempre Suddeutsche Zeitung, citando il ministero degli Esteri federale. Questo è possibile solo se “in tutte le aree il numero dei dipendenti viene ridotto, in alcuni casi in modo drastico”, ha concluso il dicastero. In vista del limite massimo per la presenza russa in Germania, il governo federale farà di tutto per assicurare che ci sia un vero equilibrio nella pratica.

Nel corso degli ultimi mesi, Germania e Russia si sono ripetutamente espulse i diplomatici a vicenda. Le rispettive rappresentanze sono già state molto sfoltite, i servizi per i cittadini tedeschi a Mosca sono ridotti o sono associati a tempi di attesa più lunghi, ad esempio per il rilascio dei documenti. La situazione è notevolmente peggiorata da quando è scoppiata la guerra in Ucraina.

Guerra diplomatica

Lo scorso aprile il ministero degli Esteri di Mosca spiegava che Berlino aveva deciso un’espulsione “di massa” dei diplomatici russi presenti nel Paese. Il Cremlino ha quindi annunciato analoghe contromisure e, di conseguenza, anche un ingente numero di diplomatici tedeschi sarebbe stato presto allontanato dalla Federazione russa.

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Kissinger compie 100 anni. Ucraina e Cina, cosa ne pensa oggi lo stratega Usa

sabato, Maggio 27th, 2023

Henry Kissinger, storico segretario di Stato americano e deus ex machina della politica Usa dagli Anni Settanta e per quasi mezzo secolo, oggi è alla vigilia dei 100 anni. Il traguardo lo taglierà domani, 27 maggio, ma nonostante l’età avanzata continua a lavorare quindici ore al giorno. E non ha fatto mancare il suo punto di vista sugli scenari geopolitici odierni. Sulla guerra in Ucraina, ad esempio, Kissinger ha le idee chiare sul ruolo decisivo che giocherà Pechino: «Ora che la Cina è entrata nei negoziati ne verremo a capo, penso entro la fine dell’anno – ha detto in un’intervista a Cbsnews – parleremo di un processo negoziale e persino di veri e propri negoziati».
Della Cina, del resto, Kissinger è un estremo conoscitore. Fu proprio lui l’architetto del vertice tra il presidente Usa Richard Nixon e Mao Tse Dong, a capo della Repubblica popolare cinese, dando il via dopo oltre vent’anni di gelo alla “normalizzazione” nei rapporti tra Washington e Pechino. Ma l’incontro fu anche l’inizio, per la Cina, del cammino che l’ha condotta a diventare un player internazionale chiave e una potenza globale. Quel vertice, peraltro, avvenne nel 1972: lo stesso anno dell’indimenticabile intervista rilasciata a Oriana Fallaci. Anni dopo Kissinger se ne pentì, definendola “la cosa più stupida che abbia fatto nella mia vita”.
La lunga carriera dell’ex segretario di Stato americano culmina, nel 1973, con il premio Nobel per la Pace che gli fu conferito per il negoziato di Parigi e per la fine della guerra in Vietnam. Un’assegnazione che venne contestata da molti, ma esaurito il suo ruolo di governo, il politico ha continuato a influenzare gli affari mondiali come consulente, autore prolifico e negoziatore in trattative di pace in varie parti del mondo.

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