Archive for the ‘La Giustizia’ Category

Caso Amara, Piercamillo Davigo rinviato a giudizio. L’ex pm di Mani Pulite a processo nell’anniversario di Tangentopoli

venerdì, Febbraio 18th, 2022

Guai giudiziari in vista per l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm simbolo di Mani Pulite. A 30 anni dall’inizio di Mani pulite con l’arresto dell’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio, il socialista Mario Chiesa, che diede il via alla stagione di Tangentopoli, Davigo è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia, Francesca Brugnara, per rivelazione di segreto d’ufficio. Il processo a carico dell’ex magistrato del pool milanese prenderà il via il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del tribunale di Brescia. Al centro del procedimento ci sono i verbali secretati nei quali l’avvocato Piero Amara parlava della Loggia Ungheria. Materiale che, nell’aprile 2020, il pm milanese Paolo Storari, che insieme all’aggiunto Laura Pedio aveva raccolto quelle dichiarazioni, aveva consegnato a Davigo. Una iniziativa che Storari aveva preso per “tutelarsi” a suo dire dalla presunta “inerzia” dei vertici della procura milanese nell’avviare indagini sulle rivelazioni di Amara.

“Il dottor Davigo, anche per mio tramite, si difenderà fortemente”, ha ribadito l’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, al termine dell’udienza. Il legale in aula aveva sottolineato le “contraddizioni” che a suo avviso sono emerse dal capo d’imputazione stilato dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, precisando come “faccia sorridere l’ipotesi di commettere il reato di rivelazione di segreto d’ufficio” confrontandosi su un’inchiesta con il vicepresidente del Csm David Ermini, al quale Davigo aveva mostrato i verbali di Amara, sollecitando un impulso nelle indagini.

L’avvocato ha anche chiarito che “Davigo ha agito secondo la legge” e ha chiesto il proscioglimento per l’ex magistrato che non era in aula perché impegnato in un convegno per i 30 anni di Tangentopoli a Pisa.

Bisognerà attendere fino al prossimo 7 marzo, invece, per una decisione sulla posizione del pm Storari. Il gup, infatti, ha rinviato il processo a suo carico, celebrato con rito abbreviato, per dare spazio ad eventuali repliche. Poi si ritirerà in camera di consiglio per emettere la sentenza.

Era stato proprio Storari ad interrogare l’avvocato Amara insieme all’aggiunto Laura Pedio nell’ambito dell’inchiesta sul ‘falso complotto Eni’, mentre a Milano era in corso il processo Eni Nigeria. In quelle audizioni, l’avvocato siciliano aveva parlato della loggia coperta, che avrebbe riunito alti magistrati, avvocati e altri personaggi di spicco e sarebbe stata in grado di condizionare nomine e appalti. Convinto della necessità di aprire immediatamente un fascicolo autonomo su Ungheria, ad aprile 2020, a suo dire per “autotutelarsi” dalla presunta inerzia dei vertici della procura, Storari “fuori da ogni procedura formale” ha consegnato i verbali a Davigo, il quale, come si legge nel capo d’imputazione, “lo ha rassicurato di essere autorizzato a ricevere copia degli atti” in quanto “il segreto investigativo su di essi non era a lui apponibile perché membro del Csm”.

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Marco Travaglio smascherato da Filippo Facci: la verità “omessa” sui suoi idoli magistrati

giovedì, Febbraio 17th, 2022

Filippo Facci

Cominciamo coi numeri, quelli delle dita di Marco Travaglio: perché l’altra sera, in uno dei suoi monologhi, ha detto che gli innocenti di Mani pulite si possono contare «sulle dita di una mano o forse due», il che solleva interrogativi su quante dita abbia Travaglio per ciascuna mano: pur già consapevoli che trattasi di personaggio da baraccone. La prendiamo alla larga: cominciamo col dire degli 88 parlamentari eletti nel 1992 – destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure – i prosciolti o gli assolti furono 61. Cominciamo anche a notare che tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, restando invece alla Milano cara a Travaglio, si arriva a circa il 46% delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che a Palazzo di giustizia non avrebbero dovuto entrarci, e sono quasi la metà. Siamo già a un Travaglio con 450 mani, considerando che le posizioni rilevate dalle statistiche ufficiali contemplano 4.520 soggetti. Ma prima di spiegare quello che le statistiche riportate cèlano, anticipiamo che nel suo libro eternamente rispolverato in cui cambia solo il packaging (Mani Pulite, si chiama, e in origine fu agevolato da un dischetto di computer elargito da un pm) risultano 469 persone prosciolte dal tribunale, di cui le «prescritte» sono solo 243; poi ci sono quelle persone prosciolte direttamente dal gup, giudice dell’udienza preliminare: e sono altre 480, di cui solo 179 per prescrizione. Tutti affari d’oro per il guantaio di Marco Travaglio.

PRESCRIZIONE
Parentesi sulla prescrizione: non è che sia una maledizione scagliata dal cielo, è un’eventualità maturata quasi sempre dai pm durante le indagini preliminari: il 60% matura prima dell’udienza preliminare (ne sono responsabili i magistrati delle indagini) e un altro 15% matura prima della sentenza di primo grado (sempre determinata da magistrati). Tenendo conto di quella notoria panzana che chiamano indiscrezionalità dell’azione penale, i pm di Mani pulite in pratica hanno accelerato i dibattimenti che parevano loro e lasciato ad ammuffire quelli che interessavano meno. Parziale dimostrazione: nel triennio 1992-1993-1994, tralasciando quindi la maggioranza dei rapidissimi dibattimenti riguardanti Silvio Berlusconi, che furono successivi – alcuni imputati sono stati condannati nei tre gradi di giudizio in soli 2 o 3 anni (citiamo solo Sergio Cusani, Walter Armanini e Paolo Pillitteri) mentre uno come Bettino Craxi, nonostante processare un parlamentare comportasse rallentamenti procedurali, ottenne la prima condanna definitiva il 12 novembre 1996 (era già ad Hammamet) in poco più di 3 anni.

Quando fu condannato a 3 anni per il processo Enimont, il 1° ottobre 1999, il giudice, oltre a leggere il dispositivo della sentenza, lesse in aula anche le motivazioni evidentemente già preparate nonostante in genere vengano elaborate nei due o tre mesi successivi, e sviluppate per centinaia di pagine: la primizia assoluta (mai vista prima) evitò ogni rischio di prescrizione. Ultimo esempio: lo stesso Craxi, il 16 aprile 1996, venne condannato in primo grado a 8 anni e 3 mesi per le tangenti della Metropolitana Milanese, e il 5 giugno 1997 la corte d’Appello confermò, ma l’anno successivo, il 16 aprile 1998, la Cassazione annullò la condanna d’Appello: ma ecco che venti giorni dopo il presidente della Quarta sezione della corte d’appello di Milano (oggi defunto) con una procedura mai vista telefonò alla Cassazione per avere gli atti del processo e «assegnarselo» prima ancora che fossero scritte le motivazioni della sentenza, così da evitare rischi di prescrizione. La Cassazione trasmise gli atti in tre giorni e il 24 luglio 1998 Craxi venne di nuovo condannato in Appello, e in un baleno, il 20 aprile 1999, una diversa sezione della Cassazione confermò. Ministro Cartabia, impàri: nessuna Corte Europea si lamenterebbe dei nostri tempi della Giustizia, se fossero tutti così.

RITI ABBREVIATI
Ma veniamo al cuore del problema: l’alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero colpevoli ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera preventiva, pena la rovina economica e dell’azienda e della famiglia coi conti bloccati. Su 3.200 persone di cui la procura di Milano chiese il giudizio, 1300 sono risultati colpevoli, certo, ma il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento è un accordo tra accusa e difesa che implica un’ammissione di colpevolezza da parte dell’indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia. Prima che il fondamentale articolo 530 fosse tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini, come non accadeva in nessun Paese occidentale) nel periodo di Mani pulite per condannare chicchessia era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio ottenuti in galera (da gente disposta a tutto pur di uscirne) e riversarli in processi ridotti a certificazioni delle carte in mano all’accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalle trattative che l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. La teoria base del nuovo Codice doveva essere che le prove e le confessioni, per essere avvalorate, fossero riproposte nell’aula del processo, nel corso del quale una testimonianza diventare una prova: non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene nel processo semplicemente non esiste.

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Tiziano Renzi, la lettera contro la Boschi? Alessandro Sallusti: “Conservata 4 anni. Il sistema-giustizia è marcio”

mercoledì, Febbraio 16th, 2022

Alessandro Sallusti

Oggi la Corte Costituzionale si riunisce per decidere l’ammissibilità dei quesiti referendari su giustizia, eutanasia e legalizzazioni delle droghe leggere. Tre temi sui quali la politica e quindi il Parlamento negli anni non hanno saputo o voluto esprimersi creando così un vuoto legislativo che ha permesso scorribande di ogni genere e un caos indescrivibile. Risultato: l’eutanasia è vietata ma di fatto praticata per sentenza o libero arbitrio dei medici, lo spinello è vietato ma anche no, il sistema giustizia continua a comportarsi come un corpo non indipendente quale deve essere bensì estraneo a qualsiasi regola e controllo. In queste ore, risulta, le pressioni dei magistrati sui colleghi della Corte Costituzionale per impedire che la rivoluzione bloccata in parlamento avvenga dal basso è forte. E questo nonostante ogni giorno accadano fatti che renderebbero urgente un giro di vite.
È di ieri, per esempio, la notizia dell’esistenza di una email scritta da Tiziano Renzi al figlio Matteo nel 2017, estratta dal suo computer e allegata all’inchiesta sulla gestione delle società di famiglia portata avanti dalla procura di Firenze con cui l’ex premier ha ingaggiato un duro braccio di ferro. Nella email babbo Renzi esprime giudizi molto duri nei confronti del cerchio magico del figlio, dalla Boschi a Lotti e a Carrai. Nulla quindi che abbia a che fare con l’inchiesta, tantomeno nulla di penalmente rilevante, roba insomma che non avrebbe dovuto essere per nessun motivo acquisita e allegata ad atti giudiziari. E invece i solerti magistrati di Firenze, nel 2018, l’hanno fatta loro, ben conservata per quattro anni e ora data in pasto all’opinione pubblica, guarda caso nel momento in cui Renzi ha scatenato una campagna contro di loro. Ecco, questo è il classico esempio di uso personale e politico della giustizia, in altri termini parliamo di un pizzino spedito per fare più male possibile, fuori dalle aule giudiziarie, a un imputato e alla sua famiglia, che peraltro fino a prova contraria e fino a giudizio finale sono cittadini innocenti.

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Giustizia, non solo riforma del Csm: dalle carriere alla Severino c’è l’incognita referendum

lunedì, Febbraio 14th, 2022

di Liliana Milella

Le coincidenze possono essere assai malandrine. Stavolta, tra referendum radical-leghisti sulla giustizia e legge di riforma del Csm, il diavolo ci ha proprio messo la coda. E basta un’occhiata al calendario per averne conferma. Tra domani e mercoledì i 15 giudici della Consulta affronteranno il dossier sui referendum presentati a doppia firma dalla Lega e dai Radicali. Decideranno se sono ammissibili. Dozzine di volte Matteo Salvini e Giulia Bongiorno hanno ripetuto che il voto degli italiani può cambiare il destino della politica della giustizia. E allora cosa può accadere alla legge sul Csm se la Corte licenzia tutti, o la maggior parte, dei sei referendum? Inevitabile un impatto mediatico con conseguenze politiche, perché in vista del voto – aprile o i primi di maggio – si scatenerà un’imponente propaganda radical-leghista. Proprio mentre la Camera discute la legge sul Csm (in aula a fine marzo). Dei sei referendum ce ne sono due che possono influire. Il quesito sulla separazione delle carriere e quello sulla responsabilità civile dei giudici. Il primo ha un effetto specifico sul testo. Il secondo ne ha uno politico. Perché se, com’è accaduto nel 1987, gli italiani votano in massa sì alla responsabilità diretta delle toghe, questo suona come l’espressa richiesta di una legge molto severa contro i giudici. Quanto alle carriere, nella legge di Cartabia è scritto che una toga non può cambiare casacca più di due volte. Il referendum darebbe grande fiato al centrodestra per ridurre il passaggio a una sola volta. E la saldatura tra Lega, Fi, Azione a FdI,che già emerge con chiarezza sul sorteggio come legge elettorale, trarrebbe grande fiato dalla campagna sui referendum.

Separazione delle funzioni

Un giurista come Nello Rossi lo ha definito »il quesito più complicato e astruso». Sicuramente è quello più lungo, oltre due pagine, praticamente illeggibile per un cittadino comune per via dei riferimenti ai singoli commi di ben cinque diverse leggi. Più che di separazione delle carriere dei magistrati sarebbe corretto parlare di una separazione delle funzioni, quella di giudice e quella di pubblico ministero. L’obiettivo del quesito è cancellare del tutto la possibilità di passare da una funzione all’altra nel corso di una carriera. Oggi questo è possibile per quattro volte, ma già con la riforma Cartabia i passaggi diventano solamente due. E il centrodestra chiede di ridurli a uno soltanto. Ridurli del tutto è impossibile perché la Costituzione parla di un solo ordine.

Responsabilità civile diretta per i giudici

Nel 1987, dopo il caso Tortora, i Radicali di Pannella, Partito socialista e Partito liberale vinsero il referendum sulla responsabilità civile delle toghe, che passò addirittura con l’80,21% di sì. Ma la legge dell’anno dopo, firmata dal Guardasigilli Giuliano Vassalli, fu subito contestata dai Radicali perché non prevedeva una responsabilità “diretta” dei giudici, ma frapponeva lo scudo dello Stato, il quale poi si rivaleva economicamente sul magistrato. La legge del 2015 del ministro della Giustizia Andrea Orlando conferma il “filtro” dello Stato. Ed è proprio questo “filtro” che il nuovo referendum vuole eliminare, riproponendo la responsabilità diretta del magistrato che deve pagare di tasca sua l’eventuale condanna per l’errore giudiziario commesso.

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La Corte costituzionale elegge Giuliano Amato: è il nuovo presidente

domenica, Gennaio 30th, 2022

È Giuliano Amato il nuovo presidente della Corte Costituzionale. Torinese, 83 anni, professore emerito di diritto pubblico comparato, più volte ministro, ha all’attivo due mandati da presidente del Consiglio nel 1992-1993 e nel 2000-2001. Nominato da Giorgio Napolitano il 12 settembre 2013, è il giudice costituzionale con maggiore anzianità, rimarrà in carica circa 8 mesi prima del termine del suo mandato di nove anni.

Giuliano Amato è stato eletto all’unanimità. L’esito è stato comunicato dal segretario generale della Consulta Umberto Zingales. Giudice con maggiore anzianità, Amato è stato vicepresidente della Corte Costituzionale dal settembre 2020 sotto le presidenze di Morelli e Coraggio.

Come primo atto, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato ha nominato vicepresidenti le giudici Silvana Sciarra e Daria de Pretis e il giudice Nicolò Zanon.

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Sabino Cassese, tsunami di elettori positivi? “Quirinale, il successore di Mattarella si può votare a distanza”

mercoledì, Gennaio 12th, 2022

Antonio Rapisarda

Né la variante Omicron, che secondo la vulgata rischia di depennare almeno un centinaio di grandi elettori, né tantomeno la riforma costituzionale, che secondo un’altra lettura renderebbe trecento e passa degli attuali parlamentari di fatto “abusivi”, possono compromettere forma e sostanza dell’elezione per il nuovo capo dello Stato. «Nessun problema. La costituzione prevede che il calcolo dei voti si faccia sugli aventi diritto, non sui presenti». Lo assicura in questa lunga intervista a Libero Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, che – con la sua solita schiettezza – non si è sottratto alle nostre domande sul futuro di Mario Draghi, sul presidenzialismo, sull’obbligo vaccinale così come su due nodi fondamentali, rispetto ai quali il celebre giurista non ha dubbi: l’iniquità del sistema sociale rispetto ai «non garantiti» e la «ferita aperta» della giustizia.

Professore, l’eventualità di rinviare il voto sul Colle, dovesse esplodere la curva dei contagi in Parlamento, è da escludere a priori?
«È certamente da escludere. Le votazioni si svolgono dal primo giorno in cui il Parlamento in seduta comune è convocato, anche se vi sono pause tra una votazione e l’altra; e possono solo concludersi con la scelta di un presidente della Repubblica».

Almeno il problema del voto in presenza, inclusi coloro che risultano positivi al tampone, si potrebbe risolvere con l’elezione a distanza. Meno “sacrale” come procedura ma in linea con il diritto dell’emergenza dell’era Covid?
«L’elezione del presidente della Repubblica è una mera votazione, non preceduta da una discussione. Quindi richiede soltanto l’espressione del voto. Se si fanno appositi collegamenti video tra le diverse sedi del Parlamento, i parlamentari possono svolgere la votazione in luoghi diversi e ciascuno dei membri del Parlamento in seduta comune ha la possibilità di controllare visivamente il regolare svolgimento della procedura di elezione».

Le pressioni internazionali – senza scomodare la tesi del “vincolo esterno” – sono orientate a chiedere un bis del duo Mattarella-Draghi. Di certo senza l’attuale premier, sostengono oltre confine, sarebbe a rischio il Pnrr. Non si può fare a meno di Draghi in nessun senso?
«Draghi ha ricoperto una carica, alla Banca centrale europea, che ritengo più importante di quella di presidente della Repubblica italiana. Io preferirei che il Parlamento italiano gli desse la fiducia per lasciarlo sette anni a Palazzo Chigi».

Davvero un bis di Mattarella, dopo quello di Napolitano, sarebbe un “tradimento” della Costituzione?
«La costituzione italiana non prevede un bis, ma non lo esclude. Certamente quello che non sarebbe corretto è un bis a termine».

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Così i tre gradi di giudizio rallentano la giustizia

mercoledì, Gennaio 12th, 2022

Giuseppe Pignatone

«Troppe leggi, troppe norme, troppi processi» ha ripetuto anche di recente la ministra Cartabia, individuando con precisione quella che – insieme alla cronica, finora, insufficienza delle risorse – è la causa principale dei tempi lunghi che affliggono la giustizia penale. Ho già sottolineato su questo giornale (Troppi reati frenano la giustizia, 8 ottobre 2019, Tre proposte per la giustizia, 10 maggio 2021) l’importanza del dato quantitativo che rende irragionevole ogni confronto con altri Paesi. Mi limito qui a citare il fatto che le notizie di reato e quindi i procedimenti, che incamera un pm italiano sono otto volte superiori alla media europea. Peraltro, data l’obbligatorietà dell’azione penale scritta in Costituzione, il pm deve trattare ogni singolo fascicolo, sottoponendolo al vaglio di un giudice anche in caso di archiviazione. È un dato numerico che lascia poche speranze e che potrebbe essere ridimensionato solo da una seria depenalizzazione, opzione ancora oggi esclusa dalle forze politiche. Sui “troppi processi” che ne conseguono, la Guardasigilli è già intervenuta introducendo norme per evitare che almeno parte dei procedimenti definiti dalle Procure arrivi al dibattimento. Sapremo nei prossimi anni se e in quale misura sarà stato raggiunto questo risultato.

Tra le concause dei tempi inaccettabili del fare giustizia, vanno considerati anche l’innata litigiosità degli italiani, confermata dalle statistiche, e la storica presenza delle mafie nel nostro Paese. Quelli di mafia sono spesso processi molto complessi e con imputati detenuti: hanno quindi la priorità e rallentano il trattamento di tutti gli altri. Non è un caso che tra le sedi più in difficoltà ci siano proprio quelle di Napoli e di Reggio Calabria. Ma sui tempi lunghi della giustizia incide in modo altrettanto significativo la scelta (del tutto politica) di mantenere nel nostro ordinamento, nonostante l’adozione del rito accusatorio, tre gradi di giudizio (e altri tre gradi previsti per ogni misura cautelare), tutti fondati sull’obbligo di motivazione. Anche in questo caso non sono possibili paragoni con i sistemi di altri Paesi europei. Non solo con quelli anglosassoni, in cui il verdetto è emesso da una giuria senza motivazione, ma anche con altri più simili al nostro come quelli continentali. Vero è che anche questi prevedono i tre gradi di giudizio, ma mentre in Italia a ogni sentenza di condanna possono seguire (e di solito seguono) l’appello e il ricorso in Cassazione, altrove esistono filtri efficaci per ridurre il numero delle impugnazioni. In Francia e in Germania, solo per fare un esempio, gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono rispettivamente 50 e 100 a fronte dei 55mila italiani. Ciò significa che all’estero sono gli stessi avvocati abilitati a fare da filtro e a limitare i ricorsi alle questioni più importanti o sulle quali non esista una giurisprudenza consolidata.

Questo spiega anche perché le sentenze di quelle Corti sono poche migliaia l’anno a fronte delle oltre 50mila emesse dai giudici di Piazza Cavour, costretti a occuparsi anche di processi di importanza trascurabile e di questioni riproposte all’infinito, dato che comunque conviene fare ricorso sperando nella prescrizione (e, in futuro, nella improcedibilità), o in una nuova legge o in un mutamento di giurisprudenza che capovolga il giudizio o almeno mitighi la pena. Una valanga di decisioni che peraltro implica un certo tasso di contraddittorietà e quindi un’erosione di autorevolezza dell’organo che dovrebbe assicurare l’uniformità della giurisprudenza.

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Le toghe rifiutano i giudizi. “Vietato darci pagelle”

lunedì, Dicembre 20th, 2021

Massimo Malpica

Arriva un «no» secco, firmato Anm, all’idea del Guardasigilli Marta Cartabia di introdurre le «pagelle» per i magistrati come misura per rendere più credibili le valutazioni periodiche di professionalità delle toghe. Valutazioni che al momento si traducono, di fatto, in avanzamenti di carriera automatici. Ma la possibile novità, appunto, non è stata accolta affatto con favore dal sindacato delle toghe, che nonostante gli scandali degli ultimi anni alza subito la voce di fronte all’ipotesi, e con un documento approvato ieri dal direttivo Anm sulle proposte di riforma della giustizia della Cartabia mette nero su bianco la propria «ferma contrarietà all’idea di introdurre, in sede di valutazioni periodiche di professionalità, il sistema delle cosiddette pagelle con previsione di un giudizio di graduazione nel merito (sufficiente, discreto, buono e ottimo) con riferimento alle attitudini organizzative». Un «no» non motivato dal timore dei magistrati di sottoporsi a un giudizio sul proprio operato bensì, secondo l’Anm, dal rischio di accentuare «la gerarchizzazione degli uffici giudiziari dilatando il potere dei dirigenti che verrebbe esercitato con criteri la cui discrezionalità non sarebbe agevolmente verificabile». Il problema, insomma, starebbe nella penna che quelle pagelle dovrebbe redigere. Ma il sindacato dei magistrati, nel documento di ieri, critica anche altre ipotesi di riforma, rimarcando in particolare «l’assenza di un espresso richiamo, nei propositi di riforma, della necessità di portare a compimento l’incarico direttivo e semi-direttivo nella sua interezza e fino alla scadenza del termine» e poi «l’attribuzione, ai fini del conferimento degli incarichi, di un ruolo assolutamente residuale al criterio dell’esperienza maturata nella giurisdizione». L’ultima bocciatura l’Anm la riserva al coinvolgimento nelle decisioni dei Consigli giudiziari dell’avvocatura, alla quale verrebbe riconosciuto il diritto di voto nelle delibere sulla valutazione di professionalità e in materia di conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Una novità che, per l’Anm, potrebbe «alterare il principio di parità delle partì nel processo e incidere sulla serenità e imparzialità della giurisdizione». E siccome il momento è quello che è, e la popolarità della magistratura non è al suo massimo, ecco che l’Anm dirige le sue critiche verso le paventate riforme come se queste fossero «ispirate a criteri esclusivamente produttivistici», rischiando così di provocare «un abbassamento del livello di qualità del lavoro giudiziario, con lo svilimento e lo scadimento della funzione».

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Uccise il padre per salvare la madre: assolto

giovedì, Novembre 25th, 2021

di VIVIANA PONCHIA

Alex Pompa, 20 anni, insieme con la mamma Maria Cotoia e il fratello Loris
Alex Pompa, 20 anni, insieme con la mamma Maria Cotoia e il fratello Loris

“Mi auguro che i giudici capiscano – diceva la mamma nell’attesa della sentenza che avrebbe cambiato le loro esistenze – vogliamo solo una vita normale”. Ai giudici aveva passato la palla il pm Alessandro Aghemo, “costretto” dal codice a chiedere una condanna a 14 anni. E dopo sei ore di camera di consiglio la corte d’Assise presieduta da Alessandra Salvadori ha emesso quel verdetto difficilissimo, assolvendo il ventenne Alex Pompa, che il 30 aprile dell’anno scorso – quand’era appena maggiorenne – a Collegno uccise il padre Giuseppe, operaio di 52 anni, per difendere la madre durante l’ennesima lite: “Il fatto non è reato”. Esulta Maria Cotoia: “Abbiamo vinto noi, finalmente la vita vera”. Mentre suo figlio ha “fretta di tornare a casa ad abbracciarci”, perché in tribunale non è la stessa cosa. Alex aveva ucciso il padre violento con 34 coltellate e sei coltelli diversi, spezzando la lama nell’ultimo fendente mortale. Ma aveva poi subito chiamato i carabinieri confessando il delitto commesso.

Il verdetto prevedeva solo due alternative: 14 anni oppure l’assoluzione come chiesto dall’avvocato Claudio Strata che ha spiegato la drammatica situazione vissuta in quella casa. Una motivazione che la corte ha riconosciuto in pieno, anche se l’introduzione delle regole per il ’codice rosso’ portano a escludere la concessione di attenuanti per chi uccide una persona legata a vincoli familiari. Quindi il fatto in sé non costituisce reato. “Ce lo meritiamo – dice il ragazzo frastornato – Ora posso riprendermi la mia vita. Abbiamo sempre confidato nella giustizia e abbiamo sentito il supporto di tutti nonostante tanti momenti duri”. Il fratello maggiore Loris gli tiene una mano sulla spalla: “Abbiamo visto la morte in faccia e Alex ci ha salvato la vita“. In aula ad ascoltare la sentenza c’era anche “il mio angelo custode”, l’imprenditore trevigiano Paolo Fassa, che ha deciso di aiutarlo dopo aver sentito la notizia al telegiornale. Ha trovato il miglior penalista della città, seguito tutte le tappe della vicenda, dispensato consigli telefonici. E il super avvocato per convincere la Corte ha fatto ascoltare 250 registrazioni scioccanti, 9 ore di audio con le urla e gli insulti fra marito e moglie.

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DiMartedì, Alessandro Sallusti contro Davigo: “Mi chiedo come abbia potuto fare il magistrato”

mercoledì, Ottobre 27th, 2021

Ha appena finito di parlare, Piercamillo Davigo, e Alessandro Sallusti lo travolge dialetticamente. A DiMartedì si discute su Silvio Berlusconi al Quirinale e l’ex pm di Mani Pulite ha usato parole sprezzanti. Il direttore di Libero ascolta e lo impallina: “Mi è sembrato di ascoltare il Marchese del Grillo, io sono io e voi non siete nessuno. Berlusconi non può fare il presidente? E io mi chiedo come uno come Davigo abbia potuto fare il magistrato, visto che non ha nessuna fiducia nella magistratura. Ha divulgato degli atti secretati perché non si fidava della Procura di Milano, ritiene le iniziative di altri magistrati contro di lui delle bazzecole, ha fatto ricorso alla magistratura civile contro il suo prepensionamento al Csm, è Davigo che non ha nessuna fiducia nella magistratura”. 

“Un polemista dell’Ottocento diceva – è stata la freddura con cui si è presentato Davigo pochi minuti prima -: in democrazia tutti possono diventare presidente. Comincio a temere che sia vero”. “Le cose che dice su Berlusconi – ribatte Sallusti- non mi stupiscono. Non sono diverse da quelle che ha sempre detto ma la vera diversità è che Davigo non ha più alcuna autorevolezza per dirle. Ripeto: se c’è uno che ritiene la magistratura fallibile è lui e lo sta dimostrando”. 

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